Un modo bello di protestare

intervista di Renzo Cassigoli su L’Unità

“I girotondi? Sono una forma civile e gioiosa di manifestare posizioni, sentimenti condivisi dalla comunità. Quel tenersi per mano vuol dire che non siamo soli, chiusi nel nostro egoismo ma siamo una collettività. E’ la rappresentazione fisica della solidarietà. Un modo nuovo e felice di esprimere, tutti insieme, la protesta e anche l’indignazione per leggi inaccettabili, come quelle che riguardano la giustizia, ma non solo”. Mario Luzi si riferisce non solo a leggi come quella sul “legittimo sospetto” ma esprime anche la preoccupazione per i venti di guerra che soffiano sul mondo.

“Sono almeno vent’anni che mi sono fatto la reputazione di pacifista, quasi fosse un’offesa esserlo e non un merito. Ebbene io sono e rimango un pacifista, anzi, mi potrei definire “irenista”. Ora con l’Iraq si parla di “guerra preventiva”, a me però sembra chiara l’intenzione aggressiva in una regione del mondo squassata da guerre insensate. E la guerra è uno strumento vecchio e inutile, incapace di risolvere dispute e ingiustizie”. Luzi insiste sul tema che sente assillante come quello della giustizia. “Quante volte abbiamo sentito parlare dell’ultima guerra combattuta per abolire le guerre? E invece ci ritroviamo al punto di partenza, magari con sofisticate tecnologie di morte e di distruzione che comportano, però, i cosiddetti “effetti collaterali” costituiti da migliaia di morti innocenti. Ora vogliono tornare in Iraq! Lo vuole l’America ora gendarme unico del mondo che ha la forza e la vuole usare. La forza militare che, senza essere sorretta dal pensiero, organizza e trascina tutto il resto, comprese le borse. Devo dire che mi resta incomprensibile la posizione di Blair, così zelante in un rapporto con gli Stati Uniti che lo isola dall’Europa. Eppure mi sembrava dotato di senso critico. Ecco, i girotondi, come quello di oggi sono importanti per esprimere una volontà di pace e di giustizia”.

La conversazione per il Poeta è anche l’occasione per riflettere sul rapporto fra politica e cultura e su cosa accade quando si separano.

Qualcuno, professore, pensa che i girotondi vogliano sostituire la politica.

Non lo credo proprio. Certo a decidere è il Parlamento ma i temi che sono al centro dell’iniziativa non riguardano solo la politica in sé, riguardano la società, il costume, riguardano la piega che possono prendere le decisioni e l’azione della politica. Manifestare insieme per questo è cosa non solo accettabile e giusta, ma bella e importante, soprattutto quando, come in questo caso, è sollecitata da orientamenti trasparenti chiaramente percepiti dalla gente. Veda, considerare distinte le attività politiche è un operazione paradossale che, purtroppo, corrisponde spesso a una realtà di fatto. Io, però, ho sempre pensato che sarebbe intelligente e generoso aprire alla cultura i recinti della politica e delle istituzioni, e lo stesso vale per il versante della cultura. Politica, cultura, società debbono ritrovare o consolidare il loro rapporto, l’una ha bisogno dell’altra. Sono il nocciolo della democrazia. Per questo non mi hanno disturbato i girotondi attorno al Senato. Non si contrapponevano alle istituzioni, erano un modo per sostenerle.

E la giustizia è un passaggio essenziale. Soprattutto una giustizia uguale per tutti e l’autonomia della magistratura.

Le leggi proposte dal governo sono già passate al vaglio severo di giuristi, costituzionalisti, esperti politologi, penso a Sartori. Spicca nettamente un giudizio condiviso che inchioda le proposte governative alla palese intenzione di salvaguardare interessi personali, a partire da Berlusconi e dai suoi amici.

Quali pericoli corre la democrazia quando in parlamento conta solo la forza dei numeri. Si può rischiare quella che è stata definita “dittatura della maggioranza”?

Io credo sia necessario non solo assicurare la certezza e la correttezza formale delle regole, ma soprattutto garantire il rispetto sostanziale delle forme della democrazia. In questo senso la nostra è una democrazia ancora giovane, senza molta esperienza, una democrazia nella quale la maggioranza può anche ritenere che tutto per lei sia lecito dal momento che ha la forza dei numeri e, in questo senso, qualche rischio lo corre. In altre democrazie più adulte e sperimentate, per esempio quella inglese, non accade quel che avviene da noi. In quelle democrazie la maggioranza è consapevole della propria posizione e della propria responsabilità e sa benissimo di non avere solo il potere di imporre decisioni ma anche il dovere di confrontarsi con l’opposizione. Jean Jacques Russeau nel saggio “L’illegalitè parmi les hommes” parla dei rischi che si corrono quando il potere si accumula sul potere finché si trasforma in arbitrio. E’ un rischio sempre presente da evitare.

In questa maggioranza c’è una “cultura” che definirei “neo-darvinista. Conta solo l’individuo. Sembra d’essere tornati nella foresta, dove il forte sopravvive e il debole soccombe…

E’ vero. Ma la democrazia dovrebbe aiutarci a uscire dalla foresta, e se non la fa vuol dire che qualcosa non funziona.

Cosa significano per lei termini come “crescita” e “sviluppo”?

Sono concetti ambigui da usare con delicatezza e circospezione. La crescita numerica è pura espansione, produce anche una insopportabile povertà e cozza con la “finitezza” del pianeta. La conferenza di Johannesburg ne è testimone. Progredire, insomma, non vuol dire procedere avanti prodotto dopo prodotto, modello dopo modello in nome d’un consumismo senza limiti. Senza la consapevolezza dei limiti invalicabili di un pianeta “finito” distruggeremo la Terra. Poi c’è la crescita dell’uomo, il suo sviluppo interiore che lo porta a scoprire e a utilizzare facoltà non ancora impiegate. Questo è il senso più vero della crescita e dello sviluppo.

Nell’”Opera al nero” Marguerite Yourcenar fa dire a Zenone: “Esageri con l’ipocrisia. La maggior parte pensa troppo poco per pensare doppio”. La riflessione si adatta al nostro tempo?

E’ una bella definizione. Senz’altro ci sarà chi è ipocrita per carattere, per sottigliezza, ma qualcuno lo è proprio perché, vivendo la falsità del nostro tempo, assimila la doppiezza, la respira. Non è cosa nuova, ma i Guicciardini erano dei giganti oggi ci sono solo pigmei. La loro è una doppiezza da beceri, da piazzisti, con tutto il rispetto per la categoria.