Quella sera a Tokyo fu smontato il piano

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di Paolo Andrea Mettel

da “Il Sole 24 Ore” di domenica 6 giugno 2010

Aneddoti inediti sul grande pianista: ai fornelli, in sala a conversare e le grandi esecuzioni di Monaco e in Giappone

Paolo Andrea Mettel, appassionato di libri antichi e cultore di musica classica, ha conosciuto nel 1985 Arturo Benedetti Michelangeli e per dieci anni lo ha accompagnato nelle tournée internazionali. In questo articolo racconta momenti e situazioni inedite del pianista italiano.

La telefonata nel mezzo della notte mi fece capire che questa volta non ce l’avrebbe fatta. Tutta la mia speranza si spense in una fitta di dolore: il Maestro ci aveva lasciati, per sempre. Ogni cosa all’improvviso cambiava. Mi accorsi che i conti con la realtà dovevano essere fatti senza la sua presenza, senza poter udire la sua bella e forte voce, senza la sua allegra e sapida ironia, senza le volute di fumo del suo sigaro toscano, senza le passeggiate nel bosco (lui gentile e affabile con il giardiniere), senza gli innocenti scherzi che mostravano la sua incontaminata innocenza artistica, ma soprattutto senza le stupende mani a intrecciare note musicali sulla magica tastiera del suo pianoforte come nessun altro.

La consuetudine nella frequenza era divenuta quasi una certezza. A volte nella vita si crede che tutto possa essere immutabile: il Maestro, la sua arte, il pianoforte, i concerti, i viaggi, le visite a Pura, le cene o i pranzi consumati insieme, le discussioni con Angelo Fabbrini su come accordare lo strumento, “la bestia”. No, non sarebbe più stato così. Certo, sono stato troppo coinvolto, emozionato: trascorrere ore e ore insieme a lui aveva sempre rappresentato un’esperienza rara e speciale e sempre nuova, mai ripetitiva. Il Maestro lontano dalla sua tastiera non era burbero e le battute non mancavano. Diventava duro e intransigente appena indossava le vesti da lavoro.

Un giorno dovevo pranzare con lui, a Pura, per trattare l’argomento dei dischi pirata. Ai fornelli, eccezionalmente, ci sarebbe stato il Maestro. Menù previsto: spaghetti. Un mio cliente, ahimè, mi trattenne più del previsto e giunsi in ritardo di circa venti minuti. Apriti cielo! «Adesso ti presenti? Non siamo mica al ristorante» mi disse con tono non soave. E precisò: «Gli spaghetti sono irrimediabilmente sciupati». Mi lasciò solo, con quel piatto di pasta che, nonostante fosse tiepida e compromessa, aveva un sapore squisito. Lui scese nello studio per esercitarsi al piano. Dopo trenta minuti ricomparve. Si avvicinò al tavolo, senza profferire parola mi versò un po’ di vino. Intanto si era rasserenato e assaporava–sorridendo sotto i baffi –una scheggia di parmigiano. Andammo poi in salotto per fumare il sigaro (avevo preso anch’io, frequentandolo, l’abitudine del toscano) e cominciammo a tracciare una sorta di strategia per denunciare la piaga dei dischi pirata che tanto lo affliggeva, soprattutto a causa dei risultati di bassa qualità di tali prodotti.

Nel 1993 ad Amburgo presso Steinway andammo per “fare visita” ai due pianoforti che erano stati messi a disposizione del Maestro. Si trattava di lavoro intenso e raffinato per accordatura e armonizzazione da eseguire insieme al vecchio esperto della nota casa tedesca. Un ufficio dava direttamente sul salone che ospitava un gran numero di neri “bestioni”. Benedetti Michelangeli era completamente a suo agio e si alternava tra l’ufficio e il vasto spazio, sempre con in testa diesis, bemolli da trasformare in tonalità che solo lui poteva sentire e immaginare. Ma durante la pausa, l’atmosfera severa era accantonata e nascevano momenti quasi esilaranti: quell’ufficio fu trasformato in sala da pranzo, il Maestro divenne ancora chef, e cominciò a condire, con la consueta abilità, l’insalatina che avrebbe accompagnato un piatto di formaggi.

Ricordo che una parte del programma della tournée di Tokyo, decisa durante i concerti di Monaco del 1992 dove il Maestro suonò con la Münchner Philharmoniker diretta da Sergiu Celibidache (suo grande amico ed estimatore), prese corpo una sera al termine del concerto. Celibidache e Benedetti Michelangeli decisero insieme cosa suonare giacché anche la Münchner sarebbe partita per una tournée in Giappone: nel camerino eravamo tutti incantati dal garbo reciproco che avevano questi due “mostri sacri”: «Ma proponga lei un brano» diceva l’uno; «Ci mancherebbe, decida pur lei» ribatteva l’altro. Alla fine si accordarono su Schumann, Concerto per pianoforte e orchestra in la minore.

E ancora: nel settembre del 1992 tutto era pronto per il secondo concerto a Tokyo. In camerino il Maestro chiese del suo orologio (si trattava di un dono molto speciale di Steinway). Non si riusciva a trovare. Subito lo andammo a cercare, Fabbrini ed io, sullo strumento pronto, immobile, mentre il pubblico era già in sala, in un religioso silenzio. Il palcoscenico aveva ancora le tende chiuse. Niente da fare, non compariva. Fabbrini, un po’ spaventato, pensò che potesse essere scivolato dentro il corpo dello strumento, con gli immaginabili rischi durante il concerto (quando si esercitava, solitamente, il Maestro lo teneva appoggiato sullo strumento). Rapido, decise di smontare pezzo dopo pezzo tutto lo strumento: l’orologio non venne fuori. E invece: eccolo, sbucato chissà da dove nel camerino. Finalmente! Dopo i sospiri di sollievo il concerto ebbe inizio alla presenza del pubblico giapponese, che alla fine era estasiato e in piedi ad applaudire. Nessuno voleva abbandonare la sala e tutti chiamavano ripetutamente Benedetti Michelangeli.

Sempre a Tokyo una sera stavamo cenando nella suite del Maestro. I discorsi s’intrecciavano tra Fabbrini, Marie Josè, il Maestro e chi sta scrivendo. Argomento fu la cucina giapponese che Arturo Benedetti Michelangeli adorava e gustava con piacere. A un certo punto intervenni ricordando i bis che il Maestro aveva concesso durante i concerti di Monaco. Lui rispose, molto severamente, che li aveva eseguiti solo per festeggiare il compleanno di Celibidache. Io continuai nell’esaltazione di quella serata che culminò con un’esecuzione fantastica della lirica di Grieg: Atthecradle. Midisse: «Ah! Sei un uomo debole, ti lasci commuovere facilmente»; gli risposi: «Maestro la carne è debole certamente ma lei quella sera strappò il cuore a tutti». Terminata la cena, si sedette in poltrona, accese il suo amato toscano; dopo due o tre boccate si alzò dirigendosi verso il pianoforte (un tre quarti) e attaccò Atthecradle. Quando terminò, avevamo gli occhi rossi e il cuore in gola. Chiudo con le parole di Fernanda Pivano: «La sua realtà era Listz o forse era Chopin o forse era Debussy chi lo sa qual era la sua realtà, ciascuno aveva una sua realtà, una realtà di Arturo Benedetti Michelangeli, una realtà che scaturiva dagli occhi chiusi, che filtrava dal mistero dell’anima, che sgorgava dalle promesse del cuore. Forse erano queste le sue realtà, irreali come i sogni della sua anima, come piogge di stelle, come ombre azzurre di nuvole; un artista così può vivere solo di sogni, può credere solo alla sua anima. Può ascoltare solo il canto dei colibrì».