Rischia di apparire come una guerra tra la ricchezza e chi ha solo le briciole

intervista di Renzo Cassigoli su L’Unità

Firenze

Mario Luzi è appena tornato da Pienza dove da vent’anni trascorre l’estate. «Siena e Firenze sono da sempre le mie città, sono parte di me. Pienza è come un luogo trovato, non connaturato, quasi una proiezione senese. È un luogo altro, che però, sta diventando sempre più mio». Il Poeta ha vissuto a Pienza l’attacco alle torri di Manhattan. In questo paesaggio quieto e sereno ha letto ed ascoltato i fiumi di parole che dall’11 settembre si sono riversati su di noi. Ora ha voglia di parlare. Seduti come sempre uno di fronte all’altro su due poltroncine di vimini, nel piccolo studio che guarda sull’Arno, il professore comincia a parlare sommesso, pesando pacatamente ogni parola, ogni frase.

Avrebbe immaginato, professore, quando ci siamo visti l’ultima volta due mesi fa di dover risentire la parola «guerra» nei termini planetari con cui oggi se ne parla?
Probabilmente no. Ma per me è in corso qualcosa di inevitabile. Vede, come in altri momenti della storia è in corso un sommovimento planetario dell’umano, inteso anche in senso fisiologico: il mondo non vuole più stare nella «geometria» che si è creata nei millenni trascorsi. Naturalmente, come sempre, si deve dare la colpa a qualcuno. Ora ce l’hanno con l’Islam, ed è un po’ ridicolo. La verità è che la parte povera del mondo cerca un nuovo assestamento provocando un’agitazione che dura da secoli, ma che si è fatta particolarmente acuta dopo il colonialismo. Ci sono delle fasi nella storia umana, e questa che stiamo vivendo è una di quelle, nelle quali lo scontro è più duro e feroce. Oggi lo scontro è tra l’Occidente – in sostanza l’America, la più forte e ormai unica grande potenza al mondo – e coloro che della prosperità dell’Occidente hanno avuto solo le briciole. Miliardi di esseri umani sono stati sacrificati a questa prosperità. È questa, se ci pensiamo, la ragione più evidente del sommovimento che percorre questo mondo insoddisfatto, sofferente, bisognoso, sfruttato e umiliato. Bisogna riconoscerlo alla fine: la nostra prosperità è stata ricavata dall’immiserimento di gran parte della popolazione del pianeta.

Miseria, fame, guerre, oppressione, diritti cancellati. Ce ne accorgiamo solo quando ci toccano. Il fondamentalismo ha fatto centomila morti in Algeria e nessuno ha mosso un dito. Ma l’ingiustizia non giustifica il terrorismo.
Assolutamente no. Lo scempio delle due torri colpisce per la ferocia. Ma dovremmo essere colpiti anche dalla morte di milioni di bambini in Iraq, in Africa, nel sud del Brasile o in India, dove l’esplosione di una fabbrica chimica provocò 16 mila morti. Non abbiamo alzato la voce contro queste ingiustizie. Anzi, non abbiamo mai detto una parola. Abbiamo solo taciuto. No, il terrorismo non ha giustificazione, ma la realtà, come risulta dalla storia, è molto più complessa e difficile da spiegare. Quello che vediamo è solo un aspetto della questione: è solo il primo piano. Dietro di esso ci sono altri piani e sono questi a determinare lo sconvolgimento dell’umanità sul pianeta. Come non accorgersi che l’ingiustizia trabocca da ogni parte, travalica ogni limite e ogni regola? È la cosa più visibile se ci pensiamo. È una crisi planetaria di cui il terrorismo è un aspetto riconoscibile, se lo circoscriviamo. Lo scontro è durissimo e si manifesta anche con episodi intollerabili alla coscienza, come l’attacco contro le due torri di Manhattan. È terrorismo, diciamo noi. Ma il terrorismo lo hanno inventato gli europei. È nato da noi, come forma «altra» rispetto a quelle del tradizionale contendere. Lo abbiamo già conosciuto nell’Ottocento.

Ma era verso il tiranno.
È vero, ma il concetto di «alterità» rispetto alla norma era enunciato. Mettere milioni di persone innocenti in un campo di concentramento e gasarli, come lo chiamiamo? E impiantare una fabbrica che esplode cos’è? Quello che voglio dire è che, «culturalmente» il terrorismo è nato qui, nell’Europa protestante, poi è arrivata in altri paesi, ha toccato altri popoli. Il gesto orribile di chi si scaglia con due aerei pieni di persone innocenti sulle due torri per uccidere altre migliaia di innocenti, è un atto mostruoso al limite della sopportazione anche mentale. Ma per chi lo compie, per il fanatico che accetta di morire pur di uccidere è un atto sacrificale. È davvero difficile capire. La mente vacilla. Ognuno ha una diversa cultura della morte. Quel che è accaduto comincia ad incidere sulla mentalità, immettendo anche il dubbio su certi valori. Evidentemente c’è chi ha della vita, e della morte, un altro concetto, gli attribuisce un altro significato.

Questo ci rende culturalmente più vulnerabili?
Sta cambiando la nostra mentalità, incide sulla struttura mentale che, dagli antichi Greci in poi, ci regge per cultura, tradizione, razionalità. La nostra cultura diventa quasi un’ipotesi contro un’altra ipotesi.

Dio è con noi, gridavano i crociati in Terrasanta, «gott mit uns» dicevano i nazisti, i fondamentalisti islamici parlano di guerra santa. Ma Dio, se c’è, non dovrebbe stare con nessuno?
Sono d’accordo con lei. La religione ha i suoi limiti. Direi che ogni religione ha avuto ed ha il suo fondamentalismo. Oggi c’è solo Giovanni Paolo II a parlare per lasciar capire che Dio è unico, come ha fatto più d’una volta. È lui che ha fatto la distinzione fra la prassi e l’essenza. Con grande dispendio di energie ha sostenuto che l’unico movimento possibile è verso l’unità in termini religiosi.

Veniamo ai fatti di casa nostra. La sensazione è che la politica, cosa nobile se è al servizio degli altri, stia diventando un affare di interessi personali che genera conflitti.
Il mio giudizio resta quello che le ho già espresso in un’altra occasione, non l’ho cambiato: abbiamo un governo padronale, nemmeno capitalistico, semplicemente «padronale». E quando qualcosa non va il padrone chiede conto a chi è sul suo libro paga: impiegati e avvocati fatti eleggere in Parlamento e portati nel governo. E questi intervengono decisi, sia che si tratti di conflitto di interessi, come di falso in bilancio o di rogatorie internazionali. Credo che in questo momento esprimiamo l’immagine più bassa e degradata della rappresentanza. È avvilente. Per fortuna qualcuno in Europa e nel mondo se ne accorge, tanto che solo ora i nostri «partners» cercano di recuperare un rapporto con l’alleato italiano tenuto in disparte. Ma è umiliante.

Lei è un poeta. Non ha la sensazione che si perda il valore della parole, per il loro uso superficiale e distorto: globalizzazione, modernizzazione, innovazione? Qual è il senso?
Purtroppo c’è questo distacco fra la parola e la «cosa», l’oggetto. Il tema mi sta molto a cuore e l’ho affrontato nei miei ultimi libri. Questo dissidio latente fra la parola e la «cosa» ha investito il linguaggio della politica, fatto spesso di parole che non hanno senso. Parole dette per mentire, cioè per nascondere la «cosa», o dette senza una chiara relazione fra contenuto e forma. La parola può essere motivo di proliferazione inutile e menzognera o può essere testimonianza della parte migliore dell’umanità. Per questo va usata con discernimento e con sobrietà.

Quale speranza c’è di fronte al non senso del mondo?
Il mondo non può non avere senso. È vero, il non senso degli uomini è andato contro la naturalezza del mondo creando profonde ingiustizie, sofferenze, dolore, iniquità d’ogni genere. Potremmo cercare quel segno di speranza cominciando col riparare le ingiustizie e parlando di pace senza arrenderci alla guerra, che ha solo provocato altre guerre.