Apocalisse Tra poesia e profezia

La prospettiva temporale applicata all’Apocalisse non regge, slitta, sfugge da ogni parte. Non è omogenea con il singolare tenore di quel profetare la misura coerente del tempo umano – e altro non ne conosciamo. Tuttavia se c’è un accentrarsi e precipitare delle epoche nella vita di Cristo come in un baricentro cosmico, a me pare si raggiunga un incremento di pathos se la nostra mente si sente presa come in un duro fermaglio tra la prima e la definitiva parusìa del Cristo. Non c’è niente di durevole sulla scena umana: il ritualismo simbolico della scena celeste è una contrapposizione. Allerta, ammonimento, memoria confermata, messa a fuoco della lezione di un passato recente? Questo dibattono i commentatori.

Una riflessione del grande poeta fiorentino morto sei anni fa sull’ultimo e più misterioso libro del Vangelo. Metafore e paradossi di un testo che ha segnato in maniera indelebile non solo la teologia ma tutta la cultura occidentale: letteratura e poesia in primo luogo.

L’analisi
Luzi come Rebora: ha un fondo religioso il mistero della parola
di Carlo Carena

Per nessun poeta del secondo Novecento l’ascolto fu così alto, la tensione così continua, lo scavo così febbrile, disperato e insieme certo che la ricerca è essa stessa il senso, il valore, la sostanza di ogni opera dell’uomo; e la ricerca sul senso della poesia non è un puro problema estetico ma morale. E forse il solo Rebora gli si affianca anche nel cinquantennio precedente. Dinnanzi a loro o a pochi altri si avverte le lievità, la distrazione, la superfluità di tante altre voci. Rileggiamo le ultime righe dell’Introduzione di Mario Luzi. Storia di una poesia di Sergio Pautasso: «Luzi dichiara il suo rifiuto di imboccare quella via che, causa l’estenuazione a cui è giunta nel Novecento la parola, pare quasi obbligata al poeta contemporaneo e che conduce al “limbo”». Il leitmotiv di tutto è la Parola. La Parola che domina, determina azioni e vicende realissime e trascendenti. La Parola che ispira il racconto e la dottrina degli autori della Sacra Scrittura. La Parola che si pone di fronte a quelle del Poeta, le suscita e le sgomenta. L’estetica e il pensiero di Luzi ruotano continuamente intorno a questo termine che racchiude e illumina ogni dato della storia e della vita. Non v’è altro. Si legge in Naturalezza del poeta (vedi Autoritratto, p. 265): «Infine crolla su / se medesimo il discorso, / si sbriciola tutto / in un miscuglio di suoni, in un brusio. Da cui / pazientemente / emerge detto / il non dicibile / tuo nome. Poi il silenzio, / quel silenzio si dice è la tua voce». È la Parola l’unica possibilità, sia essa poetica o religiosa, di conoscenza e di rappresentazione.

Così ebbe a dire il poeta fiorentino: «La parola trovata, trovata nel suo spessore, nella sua autenticità, è giustificazione primaria, la parola che nomina ma anche fa esistere la cosa, in fondo non so più se è religione o se è poesia. Il Logos che si fa carne rinnova il linguaggio, testimoniandolo con sangue, in un certo senso. Questa è la sublimità di questo Logos, insomma, che si è fatto carne»

In Poetica e romanzo, che pure sono pagine non ultime (1973), Luzi si diffondeva in un intero capitolo sul nesso tra poesia e religione, così stretto ai suoi occhi da riuscire «inestricabile». La poesia è alle sue origini manifestazione del pensiero religioso, e la religiosità è intrinseca alla poesia almeno in quella «fondamentale interrogazione» sull’uomo e sul mondo che costituisce la sua religiosità peculiare; essa condivide e presta il suo linguaggio metaforico, visionario, intuitivo all’esaltazione e allaprofezia proprie dei libri sacri. È essa, la poesia, che «distrugge la lettera per ripristinare ed espandere lo spirito» (perciò questi temi torneranno nel ’90 e nel 2002 nella prefazione «Sul discorso paolino» alle Lettere di san Paolo); «il senso meraviglioso e sofferente della vita è forse il fondamento comune tra queste due esperienze spirituali. […] L’esperienza religiosa include l’idea di progressione irreversibile, l’esperienza poetica non ignora le fatiche di Sisifo del ricominciamento da zero. In altre parole l’esperienza religiosa dà a chi la vive uno stato, l’esperienza poetica mette colui che la vive in una virtualità che s’illumina solo dalle parole trovate, le quali non servono più a chi le ha scritte e non servono per un’altra volta. […] Eppure questa parola friabile [della poesia] può portare luce alla parola fissa della religione» (lì a p. 39). Solo la Parola, quella divina, chiarisce il mondo e il destino dell’uomo, il flusso della vita e della storia e i novissimi.

E assieme (Colloquio con Mario Specchio, p. 236): «La parola trovata, trovata nel suo spessore, nella sua autenticità, è giustificazione primaria, la parola che nomina ma anche fa esistere la cosa, in fondo non so più se è religione o se è poesia». Tale poetica non poteva non portare a una lunga, profonda, suggestiva, persino pitica se si vuol usare un termine anche luziano, riflessione sul Prologo del Vangelo di Giovanni. Ancora Mario Specchio nel Colloquio osservava (p. 234) a proposito di Per il battesimo dei nostri frammenti che la raccolta si apre con l’esergo del prologo di Giovanni e che di quel libro luziano il motivo centrale è il nome, «il mistero della parola, che è anche mistero della creazione e soprattutto mistero dell’incarnazione». Ma ancora di più, dice lì lo stesso Luzi (p. 190): «Il Logos che si fa carne […] rinnova il linguaggio, testimoniandolo con sangue, in un certo senso. Questa è la sublimità di questo Logos, insomma, che si è fatto carne, mi pare». Tutti gli scritti di Luzi e questi soprattutto escono di lì e lì intorno ruotano (le tangibili persistenti tracce ermetiche testimoniano gli spasimi delle gestazioni, le difficoltà a capire e a esprimere, o la necessità di stendere attorno l’alone sacro e misterico, l’inattingibilità del mistero). Le loro parole, la loro parola partecipa di questa pregnanza, di lì trae una tensione agonistica (il termine è suo: «L’agonismo, la lama dell’espressione e il timbro, della parola» di san Paolo), una sofferenza a chiarirsi, a esplicitarsi, a uscire dalla nostra «angustia mentale» e miseria morale, riconoscendo la nostra «insignificanza», ma proprio con ciò ricuperando la nostra «dignità» (così nella prefazione a Giobbe). Dovunque in queste pagine serpeggia ancora, trasposto nel discorso poetico, il testo paolino della creazione che «geme» nelle doglie del parto, e noi stessi che possediamo la primizia dello Spirito, anche noi gemiamo nell’attesa dell’adozione e nella speranza di ciò che non si vede, con quel che segue in quel celebre capitolo della Lettera ai Romani.

Apocalisse Tra poesia e profezia
di Mario Luzi

Nell’Apocalisse siamo continuamente posti di fronte a figurazioni. Tutto accade figurativamente al ritmo delle dinamiche maestose sequenze figurali. Lo spettatore assiste muto alle mutazioni mirifiche, intento primamente a coglierne il senso, giacché è stabilito a priori che siano munite di un potere di ammonimento e di svelamento. Alla nostra cultura è innegabile però che quel linguaggio filmato parli anche esteticamente, e questa parola va intesa in senso molto comprensivo. A questo aspetto sensibile del testo contribuiscono sia i numeri che le forme e i colori delle figurazioni. Mi rendo conto che è impossibile per noi riportarci al livello della suscettibilità originaria, voglio dire del tempo e della cultura da cui il testo proviene. I numeri o i colori? Chi prevale nella nostra emozione? La numerologia non è così intrinseca al nostro pensiero come lo era nel mondo veterotestamentario. Le forme e i colori hanno nella cultura a cui apparteniamo preso il sopravvento e agiscono anche sui più distratti di noi. Non ha tempo perché li comprende tutti, non distingue fra passato e presente e vale per il futuro imminente e lontano: questo si dice nella letteratura di chiosa e di commento. Anche questa mens con le sue conseguenti misure è da ricuperare o conquistare da noi dell’Occidente, figli di una civiltà sostanziata di tempo e di storia. Credo che sia il primo passo, anzi un vero balzo, il più difficile da compiere per portarsi al livello. Chi scrive deve cercare di farlo e di farlo fare. Ecco un primo effetto apocalittico generato dall’Apocalisse.

La prospettiva temporale applicata all’Apocalisse non regge, slitta, sfugge da ogni parte. Non è omogenea con il singolare tenore di quel profetare la misura coerente del tempo umano – e altro non ne conosciamo. Tuttavia se c’è un accentrarsi e precipitare delle epoche nella vita di Cristo come in un baricentro cosmico, a me pare si raggiunga un incremento di pathos se la nostra mente si sente presa come in un duro fermaglio tra la prima e la definitiva parusìa del Cristo.

Tutto è detto e fatto in attesa di questa, in questo intervallo. Tutto quell’accumulo di simboli che si organizza in allegorie più o meno trasparenti rischia di sedurre in un gioco superiore la mente se essa perde di vista il rapporto con la situazione reale storica e metastorica a cui il testo si riferisce. È proprio quello che accade a noi. Tuttavia c’è un clima di grande inquietudine, di timore, di attesa spaventata del giudizio che si comunica al lettore moderno: nonché una minaccia catastrofica che incombe, un ordine punitivo negli avvenimenti. Più difficile è ritenere questo una necessaria affermazione del Dio vittorioso, del pantocrator bizantino. Un Cristo vindice che ritroviamo nella tradizione pre-giottesca e pre-cavalliniana. Cristo è offeso, è al di là della misericordia. È una giustizia assoluta che deve prevalere. Cristo, generosa elargizione del Padre all’umanità, ha avuto tra gli uomini un’accoglienza che esige castigo, punizione. Questo è comprensibile alla logica di fondo del giudaismo divenuto cristiano, ma il Cristianesimo rompe quella logica. Che cosa si vuole disvelato e nello stesso tempo occultato all’uomo mediante questa profezia? L’uomo, abbiamo detto, è chiamato in causa come spettatore di un trionfo e di un potere sovrumano. Eppure questa primaria ostensione di gloria e di forza lo concerne direttamente come oggetto della sua autorità e del suo giudizio. L’umanità è l’elemento vile su cui si rovesciano le calamità e i castighi e le catastrofi volute dall’ordine e dalla sua parata. Si può presumere che il fine dell’Apocalisse sia l’affermazione di una grande disparità tra il divino e l’umano. E, sì, può essere vero che il simbolismo enfatico nelle sue alternanze e nelle sue sorprese continue porti a concludere ciò che asserisce in conclusione la Bibbia della scuola di Gerusalemme, cioè che l’Apocalisse è la grande epopea «de l’espérance chrétienne, le chant de triomphe de l’Église persécutée». Si può anche arguire che sia in corso un grandioso paragone di cui viene detto e celebrato l’esito finale di trionfo. Satana è presente ma solo come antagonista corruttore di anime. Confesso che il minore e più convenzionale aspetto dell’opera mi pare
il preannuncio degli eventi futuri, un aspetto che tuttavia, data la tradizione, non poteva mancare. Probabilmente lo stato perenne di instabilità e di inquietudine, di precarietà e di attesa imminente nell’umanità sono l’epicentro dell’aspirazione. Non c’è niente di durevole sulla scena umana: e il ritualismo simbolico della scena celeste è una contrapposizione. Allerta, ammonimento, memoria confermata, messa a fuoco della lezione di un passato recente? Il Vangelo integrato in una teologia stabilita dalla prescienza? Questo si dibatte tra i commentatori dell’Apocalisse. Ma è sempre eccezionale intimazione e imperioso richiamo a una verità che è stata e sarà. Cataclisma del tempo. Ordine dell’eterna, non umana e trionfale stabilità del divino. Resta per me il mistero della indegnità e colpevolezza pregiudiziale dell’uomo. L’uomo è oggetto di rampogna e di obbrobrio preliminare. Per lui è sempre pronta e imprevedibile la punizione. Punizione per la sua scelleratezza o punizione per essere?

Il paradosso che colpisce la nostra mens (la nostra mentalità occidentale) è che lo “svelamento” inerente alla nozione stessa di apocalisse si sviluppi in una serie di visioni da decifrare. Eppure questa fusione di manifestato e di occultato entra nell’alta poesia dell’Europa a partire da Dante, che non la riesuma, piuttosto ne prolunga la tradizione poco divulgata ma costante nella cultura religiosa.

Conflagrazioni immense sono presunte, assestamenti cosmici nei quali confliggono male e bene. L’azione di Satana è fortissima, il Tuo regno deve continuamente venire (advenire). Solo se riusciamo a tenere stretto questo nesso tra il pericolo imminente e le offerte di scampo, il testo dell’Apocalisse può avere presa su di noi. Esso non è commemorativo, non è incitativo, ma trasfigura una situazione permanente della Chiesa, o meglio dei devoti a Cristo, dell’uomo mortale. Perché l’umanità deve subire tante prove, perché le cornucopie degli angeli versano tutti quei guai sulla specie degli uomini? Qual è il loro debito, che cosa devono espiare? Questo, torno a ripetere, è il grumo oscuro che è difficile sciogliere. Intanto sulla miseria e le pene degli uomini si snoda la ritualità trionfalistica della Chiesa celeste. Essa, Gerusalemme sovrannaturale, scenderà sulla terra; fino ad allora la giustizia non ci sarà. Siamo dunque associati al dramma del mondo? Siamo chiamati ad esserne parte? O dobbiamo per meraviglia assistere a una definitiva vittoria? Certo il superiore evento con la sua rivelazione si sviluppa per l’uomo in forme e prodigi che come tali si presentano. L’uomo è dunque un attante, sia pure non proto ma deutero-agonista. A che titolo di dignità, abiezione, a che grado di responsabilità e mistero? Ben poco di “apocalittico” rimane nella nostra corrente accezione di apocalisse, che intendiamo comunemente come catastrofe, abnormità mostruosa, rottura incommensurabile dell’ordine e dello schema. Tuttavia un senso profondo rimane a legittimare questa correlazione. I termini di una tragedia generale dell’uomo possono essere variati, ma permangono gli effetti di una incalcolabile causalità. L’apocalisse che abbiamo vissuto nel secolo scorso, nelle sue varie fasi, non ci dice gran che in quanto a svelamento ed è anche troppo banale come prefigurazione del futuro. Abbiamo visto soprattutto la distruzione dell’uomo come creatura; la sua cancellazione come entità distinta, la sua nullificazione come individuo in sé compiutbo e dunque la sua riduzione a numero, la sua svalutazione totale come essere vivente. Abbiamo visto questo prima nel processo aggregativo del capitalismo trionfante, sotto l’aspetto di massificazione; l’abbiamo visto sotto l’aspetto di genocidio nazista, nell’universo concentrazionario sovietico; nell’immane scempio perpetrato dai Khmer rossi. Ogni volta la grevità assoluta e irreparabile dell’accaduto schiacciava il nostro pensiero e non lasciava margine per alcun simbolo e per la sua interpretazione. L’uomo nell’occhio del ciclone come noi siamo clamorosamente stati è forse il meno idoneo a ricevere il conforto e l’ammonimento della profezia? Della profezia che lo riguarda?

Perché l’umanità deve subire tante prove, perché le cornucopie degli angeli versano tutti quei guai sulla specie degli uomini? Qual è il loro debito, che cosa devono espiare? Questo, torno a ripetere, è il grumo oscuro che è difficile sciogliere. Intanto sulla miseria e le pene degli uomini si snoda la ritualità trionfalistica della Chiesa celeste.

Di riflesso nasce tuttavia il sospetto che la profezia in realtà non lo riguardi e che la grande ostensione sia nel cielo per i celesti e sia al termine di una contesa capitale in cui il Male sia stato vinto e a Satana rimanga un forte ma angusto potere. L’umanità è vista del resto in grandi ammassamenti ed è oggetto di recriminazione in sé. A questo punto è bene concederci un’ampia e indefinita premessa sulla nostra natura prima di avanzare nel nostro tema: una di quelle premesse philosophiques di cui erano maestri i pensatori illuministi. Ognuno nel proprio campo riprendeva alla base il principio sulle origini del linguaggio, sull’ineguaglianza tra gli uomini, eccetera. In questo caso sui caratteri della religiosità umana sarebbe la materia della riflessione di fondo. L’eccezionalità dell’Apocalisse infatti è l’effetto dell’enfasi di prodigi e di aspettative impliciti nella religione come tale. Chi riceve senza particolare reattività l’Apocalisse, sia essa o no il testo giovanneo che la tradizione ha lasciato alla sua difficile identità, si investe dell’essenza del sacro come di un primordio necessario. Ci sarà certo da tener conto di una predilezione profetica della mente israelitica, di un filone della poiesis particolarmente caro alla sensibilità e alla fantasia degli Ebrei, tuttavia si entra nel religioso, forse nel religioso al quadrato, quando sprofondiamo nelle pagine dell’uomo di Patmos. Dunque la prima convinzione soggiacente a ogni altra che nel testo si esprime è la certezza di un ordine soprannaturale. La seconda è che l’ordine oltre di noi o meglio l’ordinamento celeste non si limita ad affermare ostensivamente e simbolicamente la sua perfezione ma coinvolge l’umanità. Purtroppo è un grande debito che l’umanità deve pagare per essere degna. La terza è piuttosto un sentimento: il sentimento dell’antagonismo. Per quanto l’opera sia concepita come trionfo finale dell’assoluta giustizia nel grande conflitto, la presenza del Male, la potenza avversa hanno molta forza di contrapposizione. Il regno di Dio deve avvenire, la figurazione fantastica del monstrum è un’altra richiesta dell’umano al religioso nella specie della minaccia e della consolazione, di ciò che incombe, di ciò che è con noi dalla nostra parte. A parte i riferimenti alle difficili sanguinose vicende della Chiesa nascente che molti esegeti ritrovano, l’Apocalisse è da considerarsi un exemplum ora rituale ora pitico davvero ispirato al sacro ed al santo. Il paradosso che colpisce la nostra mens (la nostra mentalità occidentale) è che lo “svelamento” inerente alla nozione stessa di apocalisse si sviluppi in una serie di visioni da decifrare. Eppure questa fusione di manifestato e di occultato entra nella alta poesia dell’Europa a partire da Dante, che non la riesuma, piuttosto ne prolunga la tradizione poco divulgata ma costante nella cultura religiosa.

Il libro e l’autore
S’intitola «Mario Luzi su la Parola di Dio» (a cura di Paolo Andrea Mettel, con introduzione di monsignor Bruno Forte, edito da Metteliana per conto dell’Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del mondo; marioluzimendrisio.com) il volume che qui presentiamo e che raccoglie le note saggistiche religiose che Luzi scrisse in varie occasioni. Parlare di Dio? È un interrogativo che non cessa di sussistere, con la sua sfida che indubbiamente sottende. Tanto più che Cristo è già Signoredella Parola. È noto l’imbarazzo ed anche lo sgomento di Mario Luzi (1914-2005), quando seppe della commissione da parte di Giovanni Paolo II per un atto creativo sulla «Via Crucis» del 1999: «Non so se sono all’altezza», fu la sua prima reazione. Poi vinse l’obbedienza alla poesia non meno che all’alto invito e abbiamo avuto il felice risultato che sappiamo e che nel libro si ripropone. Tra l’assolutezza della “Parola di Dio” e la consapevole approssimazione di ogni altro detto, sta un po’ la chiave di questi scritti luziani: ciò è evidente nell’invenzione poetica delle fragili parole umane del «Christus patiens», ma anche nelle note saggistiche che Luzi in vario tempo ha scritto sul «Libro di Giobbe», il «Vangelo di San Giovanni», le «Lettere di San Paolo», l’«Apocalisse» (che compare nel libro qui citato e uscì in edizione limitata nel 2002 per la Stamperia Valdonega). In queste pagine pubblichiamo ampi stralci della riflessione di Luzi sull’Apocalisse e della postfazione di Carlo Carena.

Un itinerario
Dal cinema alla letteratura, l’immaginazione è piena di visioni.
In attesa del 2012
«Iniziato è il giudizio universale / da un lato stanno i capri, / dall’altro presunti agnelli. / I presunti a disdegnar gli opposti / (per non aver avuto a sufficienza / furbizia e buona sorte) e, promotori dell’apocalisse, / reputarsi promossi a pieni voti / su scala cosmica!» così Alda Merini (nella foto a lato). Ma il tema dell’Apocalisse (o di una apocalisse) è ben presente nella cultura letteraria moderna. Da Ungaretti a Celan, da Eliot (citato in Apocalypse Now, il film che era nelle sale di New York l’11 settembre) da Cardarelli a De Libero, da Clément a Sinisgalli, da Hrabal a Buzzati, da Paasilinna a Rondoni, senza citare i dossier di riviste e antologie o studi dedicati al tema. Scrive Giuseppe Bartolomeo: «Verranno a prenderci su stelle cadenti / in un giorno fuori calendario / scritto con lettere decifrabili / per occhi aperti alla speranza». E chi non ha sentito parlare della “profezia” dei Maya sul 2012 che ha già dato la stura a libri appunto apocalittici? Come non ricordare Il giorno del giudizio di Salvatore Satta, Petrolio di Pier Paolo Pasolini, Aracoeli di Elsa Morante, Dissipatio H.G. di Morselli, Il mondo senza nessuno di Carlo Cassola, Il pianeta irritabile di Paolo Volponi? Venendo più vicino a noi, si può ricordare il racconto L’ultimo capodanno dell’umanità di Niccolò Ammaniti. O, in America, La strada di Cormac McCarthy, le catastrofi di James G. Ballard (Condominium). Il cinema (Permanent Vacation di Jarmusch, Matrix) e la televisione, in 24, oltre che la fantascienza hanno spesso anticipato i temi della “catastrofe” e del “deserto” reali. Per De Lillo, Wallace, Gosh, Franzen, le Torri che crollavano erano in qualche modo “rovine del futuro” a cui erano stati preparati “esteticamente” da Hollywood.