Pippo Marcenaro “un ritratto di Luzi”

Pochi attimi dopo aver raccolto, davanti alla porta della camera numero 3823 dell’Helmsley Hôtel di New York, i sei etti abbondanti dell’”Usa Today” e aver subito un colpo davanti alla prima pagine della Section D – Life (cultura, film, libri e gossip), pensai a Mario Luzi. Un titolo su quattro colonne annunciava: Italian satiris Dario Fo wins literature’s Nobel. Neppure lo scintillante culmine dello splendido grattacielo Chrystel (il più bello di New York e quindi il più bello del mondo) spettacolante davanti alla finestra della camera dell’hôtel riuscì a distrarmi dal pensiero centrale rivolto allo zio Mario (come da anni lo chiamavamo, auspice Stefano Verdino, il suo più devoto e attento critico). Una mese prima, a Genova, dopo una conferenza al “Teatro del Falcone”, Luzi era passato da casa mia. Guardando la città dalla finestra aveva scherzato. A controllare le navi che entravano e uscivano dal porto, immaginava di essere nell’abitazione di un comandante di mare. Era soddisfatto della conferenza. Il pubblico lo aveva festeggiato. Evocò alcuni ragazzini che rincorrendosi attorno alle poltrone della sala riempivano di echi squillanti la sala del Falcone. “Mi sono sembrati allodole in volo”.

Era un uomo felice. Non soltanto per l’esito della conferenza, ma anche perché sembrava proprio che quell’anno ce l’avrebbe fatta. Amici ed estimatori guardavano a lui come al premio Nobel per la letteratura 1997. Dall’ultimo Nobel conferito a un italiano nel 1975, a Eugenio Montale, per il tempo giusto ormai trascorso, nella curiosa cadenza fatta di bilancini, nazionalità e infiniti cavilli, la schizzinosa Accademia di Svezia, in quel ‘97, sembrava proprio girata dalla parte dell’Italia. E nessuno come Luzi, per l’alto valore letterario e per l’autorevolezza delle istituzioni che avevano proposto la sua candidatura, aveva le carte giuste per accogliere il serto svedese.

Quel pomeriggio, a casa mia, si schermiva. Con il Nobel non si sa mai quel che può succedere. Tenuto anche conto delle clamorose “dimenticanze”: Tolstoi, Proust, Borges… Gli chiesi, nell’ipotesi fosse risultato vincitore, se avesse già pensato a come impegnare quell’autentica montagna di denaro che, al di là dell’altissimo onore, reca il sommo premio. “Se dovesse andare – rispose facendo un piccolo scongiuro – farò fare la veranda sul terrazzo di casa a Firenze. Sono tanti anni che sogno di farmi una veranda”. Mi viene il sospetto che Luzi non si rendesse conto dell’ammontare dell’assegno. Con quella somma di verande avrebbe potuto farsene centinaia. Oppure mi prendeva gaiamente in giro. Come lo faceva anche con se stesso e come lo aveva fatto in una vecchia dedica apposta al frontespizio del suo Rosales, un testo andato in scena a Genova, al Politeama Genovese nel maggio 1983: “Spero non ti sia troppo insopportabile questo macigno”.

Inevitabile far riferimento alla “casualità” del sommo premio quale destino di due poeti che, a Firenze, se non proprio stretta amicizia, avevano avuto consuetudine. E cioè lui, Mario Luzi e Eugenio Montale. Aveva conosciuto il suo possibile predecessore nell’onore molti anni avanti. Raccontò che allora non sapeva niente di lui. “Avevo letto da pochi giorni La casa dei doganieri, pubblicata su un numero della ‘Fiera Letteraria’ per caso capitata nelle mie mani di liceale”. Aveva così deciso d’andare a conoscere l’autore di quei versi. Glielo indicarono al Palazzo di Parte Guelfa dove aveva sede il Gabinetto Vieusseux. “L’edificio, già tetro di suo, mi sconfortò del tutto quando si trattò discendere in quell’ipogeo. Là, seduto dietro una scrivania, occultato più che illuminato da un cerchio di luce che concentrava sul piano un paralume verde, stava il poeta nella veste di direttore. Dopo due parole di cortesia la mia timidezza e la sua scontrosità produssero insieme un tale imbarazzo e un tale ingorgo di mutismo che io desiderai solo di uscire al più presto da quella tana, per quanto illustre fosse. Giurai che mai più avrei obbedito a quegli slanci che poi il mio impaccio non avrebbe saputo assecondare e che mi avrebbero messo nei pasticci specialmente con gente di lettere che, a giudicare da quella prima esperienza, si teneva molto sulle sue. Non tutta, per fortuna, e ne ebbi la prova tra i miei coetanei in mezzo ai quali non era esclusa la cordialità e perfino la magnanimità”.

Dopo tanti anni si percepiva ancora in Luzi la delusione del remoto approccio con quell’orso morfottone di Montale che lo aveva accolto con timida sufficienza. Conferma del fatto che mai si dovrebbero conoscere i letterati se non attraverso le loro opere. Eppure Mario Luzi era diverso. Un poeta di alta qualità, gentile, un uomo di grande disponibilità, amabile. Con quell’ironia tipica dei grandi e di chi abbia contemplato il volto oscuro dell’esistente e per questo abbia accorata pietà per i propri simili. Luzi era un conversatore piacevole. Parlava sottovoce, con uno strascicato accento toscano. A proposito del Nobel ironizzava, anche se tutti eravamo certi sarebbe planato sul suo capo come l’alloro su quello di Petrarca in Campidoglio. A Stoccolma c’era già stato, accolto da numerosi ammiratori in affettuosa aspettativa per il poeta che veniva dall’Italia, vista come una delle patrie della poesia. Aveva parlato di Leopardi all’Istituto Italiano di Cultura davanti a una colta platea fra cui spiccava il meglio della letteratura svedese.

La sera della conferenza era stato presentato anche un suo volume antologico, nella versione svedese di Gösta Andersson; l’incontro annunciato da un lungo articolo, pieno di elogi per Luzi, apparso sulle pagine culturali del quotidiano “Dagens Nyheter”. A farlo invitare doveva aver contribuito in parte Giacomo Oreglia, un piemontese che dal 1949 viveva in Svezia. Saggista, poeta, regista e traduttore, Oreglia “lassù” diceva di conoscere tutti. Aveva fondato una minima casa editrice – Italica – dove andava pubblicando in traduzione gli autori italiani per facilitarne la lettura ai membri dell’Accademia. Curiosamente si era trasformato in una specie di Agente all’Avana per i poeti e gli scrittori d’Italia che lo contraccambiavano compiacendolo con deferenza. Ogni anno, in estate, Oreglia tornava in Italia e, nel corso di sontuose colazioni e cene dov’era ospite illustre, dispensava “strane promesse”. I suoi occhi, celati da boscose sopracciglia, emettevano lampi d’intesa che alludevano… Suscitando nel destinatario di quelle attenzioni impensabili illusioni.

In questo curioso personaggio, un po’ Chévalier de Balibari e un po’ illusionista, che telefonava dalla Svezia a carico del destinatario, Luzi doveva aver creduto fermamente. E anche i suoi amici, cui la facondia di Oreglia consentiva inequivocabili certezze. La segnalazione dello “zio Mario” all’Accademia caldeggiata da qualche anno dai Lincei sembrava veramente prossima ad essere accolta. Mentre Luzi parlava dei curiosi e spesso tragicomici retroscena del premio che il fantasioso Oreglia gli aveva dato a intendere, sempre rassicurandolo, lo guardavo con il partecipato orgoglio di chi viva una specie di gloria riflessa e si compiaccia d’essere al cospetto di un prossimo Nobel. Sono anche portato a supporre, benché non vi facesse mai cenno, né probabilmente neppure lo pensasse, che per Luzi l’augusto riconoscimento nordico, rappresentasse inconsciamente il saldo di quell’antico conto aperto con Montale quando l’aveva accolto con sufficienza. D’altra parte quella volta Luzi era un liceale e Montale un poeta già affermato, l’autore del celebrato Ossi di seppia. Si frappose tra loro un blando distacco che sembrò perdurare negli anni. Anche quando Luzi e Montale, nella banda dei letterati, sedevano per ore uno accanto all’altro ai tavolini del fiorentino Caffè delle Giubbe Rosse. Non intesi mai Luzi parlare di Montale, rievocandolo nella memoria, con il confidenziale Eusebio, come facevano tutti coloro i quali volevano essere considerati suoi intrinseci. Lui diceva: “Montale aveva detto… Quando vedevo Montale…” ecc. Sarebbe invece curioso sapere cosa avrebbe pensato Montale quando Luzi venne nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica Ciampi. Quando idealmente, nell’emiciclo di palazzo Madama, lo “zio Mario” andò a occupare il posto che già era stato proprio di Montale.

Mi sorpresi alla reazione di Luzi quando apprese la notizia del Nobel a Dario Fo. I giornalisti alla ricerca continua di perfidi scoop lo sollecitarono a esprimersi nel merito. A seguito delle sue dichiarazioni gli arrivò il “Tapiro d’oro”, premio che una trasmissione televisiva popolare assegna a chi si è comportato da belinone. Lo rividi da allora ancora molte volte. Rideva della propria sbadataggine. Non riusciva a capire cosa l’avesse mosso a dichiarare il proprio disappunto. Forse la delusione. Inspiegabile per un poeta come Luzi che per “venir fuori” e essere più noto al cospetto della poesia nazionale aveva dovuto pazientare che la trimurti poetica italiana sparisse per sopraggiunta infungibilità. Il “trio” Quasimodo, Ungaretti e Montale come un improprio tappo ostruì per mezzo secolo l’affermazione di una nuova generazione di poeti. E nonostante il riconoscimento e la stima della critica, tra cui l’affettuosa attenzione del coetaneo Carlo Bo, Luzi, il poeta più ispirato tra i poeti del suo tempo, era stato costretto ad aspettare il suo momento per essere conosciuto dal più vasto pubblico, distratto dai soliti noti. Cercò di spiegare la sua reazione per il Nobel mancato. Non ce l’aveva con il vincitore, semmai con ciò che quella scelta rappresentava: un sintomo in cui leggeva il tramonto della letteratura e della sua tradizione alla quale era stato fedele per tutta la vita. In effetti il premio Nobel a Fo – per altro candidato più volte nei decenni precedenti – sembrò uno “scherzo” giocato ai letterati italiani dai giudici dell’Accademia di Stoccolma. In molti recriminarono sulla presunta “bocciatura” di Mario Luzi. Candidato più volte, Luzi però “non sarebbe neppure mai giunto alla discussione, secondo un autorevole membro dell’Accademia di Svezia”, come dichiara Daniela Marcheschi nel suo Alloro di Svezia, un curioso saggio zeppo di retroscena sul premio Nobel.

Pippo Marcenaro, un suo ritratto di Luzi in Ammirabili e Freaks, Torino, Aragno, 2010