Michelangeli: Universo e tappe di un mito

Universo e tappe di un mito

di Roberto Corrent

Arturo Benedetti Michelangeli nasce a Brescia il 5 gennaio 1920: per una significativa coincidenza lo stesso giorno a distanza di undici anni vedrà la luce Alfred Brendel (1931) e ancora undici anni dopo Maurizio Pollini (1942). La prodigiosa serie, però, finisce qui.

Il padre di Arturo, Giuseppe, avvocato diplomato in pianoforte e composizione, si rende presto conto che il figlioletto di tre anni è musicalmente molto dotato. Arturo, che in famiglia era chiamato Ciro, per via dei suoi ricciolini dritti sul capo come il Cirillino del «Corriere dei Piccoli», possiede l’orecchio assoluto, e sotto la guida del padre inizia lo studio del pianoforte, studio che proseguirà con Paolo Chimeri. Nel 1930, al Conservatorio di Milano, diviene allievo di Giovanni Anfossi, e si diploma a quattordici anni presentando tra l’altro le Variazioni su un tema di Paganini di Brahms, un’opera che lo accompagnerà per tutto il suo percorso di interprete.

Nel 1938 partecipa al Concorso internazionale «Eugène Ysaÿe» di Bruxelles (il futuro «Reine-Élisabeth»): i giurati (tra cui Walter Gieseking e Arthur Rubinstein) assegnano il primo premio a Emil Gilels. Classificato settimo, Benedetti Michelangeli viene onorato dall’amicizia della regina Elisabetta, che chiede spiegazioni per quel risultato, scoprendo che un membro italiano della giuria aveva dato al suo connazionale “zero”… La regina organizza per il settimo classificato un concerto straordinario e gli dona dei gemelli in oro e brillanti a forma di 7. «Il sette le porterà fortuna». Sembra una fiaba, e come tale infatti continua.

L’anno successivo partecipa al Concorso pianistico internazionale di Ginevra (in giuria Alfred Cortot e Ignacy Jan Paderewski): i partecipanti suonano dietro a un paravento e la giuria li distingue dal numero loro assegnato. Ad Arturo tocca il numero sette: «È nato un nuovo Liszt», sono le parole di Alfred Cortot. Le prime incisioni in studio di Benedetti Michelangeli per La Voce del Padrone risalgono a quest’epoca: è l’inizio di un rapporto estremamente conflittuale con la sua discografia, che non ama riascoltare: «Se voglio ascoltare me stesso mi siedo e suono».

Nel 1940 viene nominato docente “per chiara fama” al Liceo Musicale di Bologna, dove sostituisce Carlo Vidusso. È questo un ruolo molto sentito da Benedetti Michelangeli che amava i suoi allievi. Per il Maestro è fondamentale che l’allievo apprenda a «pensare in modo indipendente, giacché soltanto ciò che si scopre da soli ha valore duraturo».

Nel 1949 fa parte della giuria del concorso pianistico «Premio Busoni» di Bolzano, di cui è cofondatore. Nel 1957 incide per la Emi il Concerto in sol di Ravel e il Concerto n.4 di Rachmaninov, con la Philharmonia Orchestra di Londra diretta da EttoreGracis.
Nel 1964 nasce a Brescia il Festival pianistico internazionale «Arturo Benedetti Michelangeli», che verrà esteso l’anno successivo anche a Bergamo.
Un anno dopo fonda a Bologna l’etichetta discografica Bdm, il cui fallimento nel 1968 causerà la partenza definitiva dall’Italia (dove dichiara di non voler più suonare) e il trasferimento in Svizzera.

Nel 1971 inizia la collaborazione con la Deutsche Grammophon Gesellschaft con cui registrerà fino al 1990 opere di Debussy, Chopin, Beethoven, Brahms, Schubert e Mozart. In questi anni collabora con Carlos Kleiber, Carlo Maria Giulini, Sergiu Celibidache, Cord Garben e Michael Tilson Thomas.
Il 7 maggio1993 tiene il suo ultimo recital dedicato a Debussy alla Musikhalle di Amburgo. Il 12 giugno 1995 Arturo Benedetti Michelangeli muore all’ospedale cantonale di Lugano. Diceva il Maestro: «La perfezione è una parola che ancora non comprendo. La perfezione è un limite, un circolo chiuso. L’evoluzione è qualcos’altro. Ma la cosa più importante è il rispetto per l’autore.

Quella sera a Tokyo fu smontato il piano

Aneddoti inediti sul grande pianista: ai fornelli, in sala a conversare e le grandi esecuzioni di Monaco e in Giappone

Paolo Andrea Mettel, appassionato di libri antichi e cultore di musica classica, ha conosciuto nel 1985 Arturo Benedetti Michelangeli e per dieci anni lo ha accompagnato nelle tournée internazionali. In questo articolo racconta momenti e situazioni inedite del pianista italiano.

di Paolo Andrea Mettel

La telefonata nel mezzo della notte mi fece capire che questa volta non ce l’avrebbe fatta. Tutta la mia speranza si spense in una fitta di dolore: il Maestro ci aveva lasciati, per sempre. Ogni cosa all’improvviso cambiava. Mi accorsi che i conti con la realtà dovevano essere fatti senza la sua presenza, senza poter udire la sua bella e forte voce, senza la sua allegra e sapida ironia, senza le volute di fumo del suo sigaro toscano, senza le passeggiate nel bosco (lui gentile e affabile con il giardiniere), senza gli innocenti scherzi che mostravano la sua incontaminata innocenza artistica, ma soprattutto senza le stupende mani a intrecciare note musicali sulla magica tastiera del suo pianoforte come nessun altro.

La consuetudine nella frequenza era divenuta quasi una certezza. A volte nella vita si crede che tutto possa essere immutabile: il Maestro, la sua arte, il pianoforte, i concerti, i viaggi, le visite a Pura, le cene o i pranzi consumati insieme, le discussioni con Angelo Fabbrini su come accordare lo strumento, “la bestia”. No, non sarebbe più stato così. Certo, sono stato troppo coinvolto, emozionato: trascorrere ore e ore insieme a lui aveva sempre rappresentato un’esperienza rara e speciale e sempre nuova, mai ripetitiva. Il Maestro lontano dalla sua tastiera non era burbero e le battute non mancavano. Diventava duro e intransigente appena indossava le vesti da lavoro.

Un giorno dovevo pranzare con lui, a Pura, per trattare l’argomento dei dischi pirata. Ai fornelli, eccezionalmente, ci sarebbe stato il Maestro. Menù previsto: spaghetti. Un mio cliente, ahimè, mi trattenne più del previsto e giunsi in ritardo di circa venti minuti. Apriti cielo! «Adesso ti presenti? Non siamo mica al ristorante» mi disse con tono non soave. E precisò: «Gli spaghetti sono irrimediabilmente sciupati». Mi lasciò solo, con quel piatto di pasta che, nonostante fosse tiepida e compromessa, aveva un sapore squisito. Lui scese nello studio per esercitarsi al piano. Dopo trenta minuti ricomparve. Si avvicinò al tavolo, senza profferire parola mi versò un po’ di vino. Intanto si era rasserenato e assaporava–sorridendo sotto i baffi –una scheggia di parmigiano. Andammo poi in salotto per fumare il sigaro (avevo preso anch’io, frequentandolo, l’abitudine del toscano) e cominciammo a tracciare una sorta di strategia per denunciare la piaga dei dischi pirata che tanto lo affliggeva, soprattutto a causa dei risultati di bassa qualità di tali prodotti.

Nel 1993 ad Amburgo presso Steinway andammo per “fare visita” ai due pianoforti che erano stati messi a disposizione del Maestro. Si trattava di lavoro intenso e raffinato per accordatura e armonizzazione da eseguire insieme al vecchio esperto della nota casa tedesca. Un ufficio dava direttamente sul salone che ospitava un gran numero di neri “bestioni”. Benedetti Michelangeli era completamente a suo agio e si alternava tra l’ufficio e il vasto spazio, sempre con in testa diesis, bemolli da trasformare in tonalità che solo lui poteva sentire e immaginare. Ma durante la pausa, l’atmosfera severa era accantonata e nascevano momenti quasi esilaranti: quell’ufficio fu trasformato in sala da pranzo, il Maestro divenne ancora chef, e cominciò a condire, con la consueta abilità, l’insalatina che avrebbe accompagnato un piatto di formaggi.

Ricordo che una parte del programma della tournée di Tokyo, decisa durante i concerti di Monaco del 1992 dove il Maestro suonò con la Münchner Philharmoniker diretta da Sergiu Celibidache (suo grande amico ed estimatore), prese corpo una sera al termine del concerto. Celibidache e Benedetti Michelangeli decisero insieme cosa suonare giacché anche la Münchner sarebbe partita per una tournée in Giappone: nel camerino eravamo tutti incantati dal garbo reciproco che avevano questi due “mostri sacri”: «Ma proponga lei un brano» diceva l’uno; «Ci mancherebbe, decida pur lei» ribatteva l’altro. Alla fine si accordarono su Schumann, Concerto per pianoforte e orchestra in la minore.

E ancora: nel settembre del 1992 tutto era pronto per il secondo concerto a Tokyo. In camerino il Maestro chiese del suo orologio (si trattava di un dono molto speciale di Steinway). Non si riusciva a trovare. Subito lo andammo a cercare, Fabbrini ed io, sullo strumento pronto, immobile, mentre il pubblico era già in sala, in un religioso silenzio. Il palcoscenico aveva ancora le tende chiuse. Niente da fare, non compariva. Fabbrini, un po’ spaventato, pensò che potesse essere scivolato dentro il corpo dello strumento, con gli immaginabili rischi durante il concerto (quando si esercitava, solitamente, il Maestro lo teneva appoggiato sullo strumento). Rapido, decise di smontare pezzo dopo pezzo tutto lo strumento: l’orologio non venne fuori. E invece: eccolo, sbucato chissà da dove nel camerino. Finalmente! Dopo i sospiri di sollievo il concerto ebbe inizio alla presenza del pubblico giapponese, che alla fine era estasiato e in piedi ad applaudire. Nessuno voleva abbandonare la sala e tutti chiamavano ripetutamente Benedetti Michelangeli.

Sempre a Tokyo una sera stavamo cenando nella suite del Maestro. I discorsi s’intrecciavano tra Fabbrini, Marie Josè, il Maestro e chi sta scrivendo. Argomento fu la cucina giapponese che Arturo Benedetti Michelangeli adorava e gustava con piacere. A un certo punto intervenni ricordando i bis che il Maestro aveva concesso durante i concerti di Monaco. Lui rispose, molto severamente, che li aveva eseguiti solo per festeggiare il compleanno di Celibidache. Io continuai nell’esaltazione di quella serata che culminò con un’esecuzione fantastica della lirica di Grieg: Atthecradle. Midisse: «Ah! Sei un uomo debole, ti lasci commuovere facilmente»; gli risposi: «Maestro la carne è debole certamente ma lei quella sera strappò il cuore a tutti». Terminata la cena, si sedette in poltrona, accese il suo amato toscano; dopo due o tre boccate si alzò dirigendosi verso il pianoforte (un tre quarti) e attaccò Atthecradle. Quando terminò, avevamo gli occhi rossi e il cuore in gola. Chiudo con le parole di Fernanda Pivano: «La sua realtà era Listz o forse era Chopin o forse era Debussy chi lo sa qual era la sua realtà, ciascuno aveva una sua realtà, una realtà di Arturo Benedetti Michelangeli, una realtà che scaturiva dagli occhi chiusi, che filtrava dal mistero dell’anima, che sgorgava dalle promesse del cuore. Forse erano queste le sue realtà, irreali come i sogni della sua anima, come piogge di stelle, come ombre azzurre di nuvole; un artista così può vivere solo di sogni, può credere solo alla sua anima. Può ascoltare solo il canto dei colibrì».

I concerti di Varsavia

In occasione del 15º anniversario della scomparsa di Arturo Benedetti Michelangeli, l’«Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo» con la generosa collaborazione di Stile Italiano metterà a disposizione, insieme al primo numero della rivista a lui dedicata, una speciale incisione del Maestro con i concerti di Varsavia del 1955. Sabato 12 giugno alle 16.30, il grande pianista sarà ricordato presso la chiesa di San Giovanni Battista di Mendrisio. Interverranno: il vicesindaco di Mendrisio Rolando Peternier, il giornalista del «Corriere della Sera» Armando Torno, l’accordatore Angelo Fabbrini, il giornalista musicale Roberto Corrent, il maestro organista Ermanno Codegoni, responsabile di Santa Maria delle Grazie di Milano, e Paolo Andrea Mettel presidente dell’Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo. Per informazioni: www.marioluzimendrisio.com