L’intervento di Marco Marchi all’Accademia degli Euteleti

Marco Marchi

per presentare «Lasciami, non trattenermi» di Mario Luzi

Il ricordo è molto forte, ma sono già cinque anni che Mario Luzi, il nostro grandissimo e amatissimo Mario Luzi, ci ha lasciato. Aveva fatto in tempo, quella mattina a Firenze del 28 febbraio 2005, ad accendere com’era sua abitudine la radio che teneva accanto al letto, per entrare proprio così, giorno dopo giorno, in quella vicenda del mondo che tanto lo affascinava e tanto lo preoccupava. Entrarvi come uomo e come artista, secondo parametri evolutivi e movimenti interni rilevabili nella sua lunga carriera di poeta che già all’altezza del 1963, l’anno di Nel magma, avevano segnato una piena accoglienza del modello dantesco: una lirica anti-petrarchesca, disponibilmente aperta ed inclusiva, fuori dai confini dell’«io» e invece dentro l’universo, secondo perfezionamenti e veri e propri ribaltamenti espressivi rivelatisi necessari, ineludibili e trascinanti, in chi pur era stato l’autore di Avvento notturno e il poeta-Principe di quell’ermetismo che proprio a Firenze aveva celebrato i suoi fasti.

Cinque anni senza Mario Luzi, ma con la sua opera, con la sua eredità più preziosa e incorruttibile che proprio di recente ci ha fatto dono di un ultimo, straordinario libro. Una nuova raccolta che è venuta ad aggiungersi a quella già incredibile Dottrina dell’estremo principiante con cui si festeggiarono nell’ottobre del 2004 a Pienza, al «Centro Studi Mario Luzi La barca» di Pienza che oggi partecipa a questo ricordo, i laboriosi e creativi novant’anni del poeta e, insieme, la sua nomina senatoriale.

Lasciami, non trattenermi, edito da Garzanti per le cure specialistiche di Stefano Verdino, riconferma ed amplia il miracolo di un attraversamento lungo e protagonistico del Novecento e degli inizi di nuovo millennio effettuato con sicurezza, senza mai appannamenti di presenza o cedimenti di qualità. Siamo di fronte a un libro – è bene dirlo subito – bellissimo, alto e nel contempo affabile, a partire dallo splendido titolo allusivo di congedi e commozioni che il curatore ha, su base citazionale, prescelto; a partire, internamente al libro e ogni volta da capo – come parcellizzati, rinascenti prodigi di una voce che torna a parlare – dagli incipit di queste ultime poesie di Luzi. Una raccolta importante e a tenuta ispirativa compatta, organizzata secondo criteri filologici condivisibili ed efficaci, su cui molto è stato scritto e si scriverà, non secondariamente attratti da quell’anomalo e un po’ inatteso poemetto introduttivo di carattere autobiografico-familiare dal titolo Infra-Parlata affabulatoria di un fedele all’infelicità, del 2002, che porta alla ribalta un Luzi degli afftti domestici irrimediabilmente preda dell’amarezza, del tutto turbato ed incapace di assolversi.

Ma, al di là dell’imprevisto testuale rappresentato dalla Infra-Parlata, che in molti hanno sottolineato come punto di forza del libro, la prima e più resistente impressione che la raccolta nel suo insieme ha suscitato in me è stata quella di potere riascoltare la voce di Luzi: poesia dopo poesia, con quegli attacchi – già lo accennavamo – così suoi, «firmati», da Maestro, che coniugano necessità e naturalezza di ogni nuovo messaggio: dalla sorpresa del segno naturale rilevato, còlto al volo e nel contempo distanziato contemplato che si affida all’esclamazione ammirata di un «Ecco» all’interrogazione dubitante; dall’invocazione alla preghiera, con quelle sue riconoscibilissime modalità precisanti in divenire, minutamente in progressione, o con quelle suggestioni consentite dalla rinviata identificazione dell’oggetto poetico che parla o di cui si parla, con tutti i propri, particolari contrassegni linguistici di realizzazione.

Esemplifico attraverso qualche sintetico ed estrapolato rimando, deliberatamente ancillare e tutto di servizio: «Salita l’alba, / ecco, si disvela, è / l’inessere delle cose in sé, / in sé ciascuna / nell’imo» (p. 52); «Ecco, c’è movimento / negli stabbi tra le pecore, / gli armenti. […] Ecco, qualche lucore ai vetri, / qualche emergere d’icona / dal buio (p. 54); «Oh quanti sono / che di me non sanno» (p. 108); «Perché, tempo, mi strazi, / perché mi disunisci / e sbrani / la compagine della mia chiarezza, / perché contro di me / usi l’uomo / come un dardo, la sua pena / come un nembo?» (p. 113); «Non negarti, non essermi / avara di te, estate» (p. 52); «Non perderti, non allontanarti dal pensiero, / non uscire dal desiderio» (p. 64); «Sopprimilo, ti prego, / non lasciarmelo / neppure per gioco immaginare / un tempo altro da questo» (p. 84). Fino ai versi iniziali della eponima, strepitosa «Lasciami, non trattenermi» (p. 135), con quell’incipit, per dirla con Luzi stesso, davvero «salutare», ambiguamente di saluto e salute: di salvezza.

La stessa voce, inconfondibile: la voce di Luzi anche in quei finali dubitanti, sospesi, o al contrario assertivi, pausati e semanticamente completanti, perfino epigrafici, lapidari e del tutto risolutivi, del tipo (e qui rinuncio anche a fornire altri riscontri testuali, da tutti agevolmente rilevabili e collezionabili) «Luce – luce che mi manchi».

E con i ritorni di stile – il vocabolario e la dinamica, musicale sintassi che costituiscono l’idioletto di un autore – anche le rivisitate e accresciute cifre tematiche di tipo naturalistico, tra cui spiccano, in presenza dell’«essere», i temi naturali – dai monti agli uccelli, con ancora, in assoluto prediletto fra tutti, il motivo fluviale di chi scrisse fin dagli anni Trenta La barca: per cui si veda ad esempio Vicino alla sorgente («Avanza cautamente / scortato da aironi e da germani / quasi in avanscoperta di se stesso / il fiume / nell’acquitrinosa selva-valle», p. 46); oppure, con tipico attacco verbale pregresso «S’increspa il fiume» di p. 61, cui fa eco il «S’infrasca, si sofferma» detto dell’Arno internamente a Prepara il suo settembre l’Arno, p. 29. Riprese e variazioni che inducono a pensare non certo alle stanchezze di un poeta o alle smagliature di un libro postumo, curato, in assenza del suo artefice, da altri, ma soltanto, e con profondità, ai cogenti richiami dell’arte, musica, pittura o scrittura poco importa: a tal punto da ricordare le nobili nature morte di Morandi, o ancor meglio – con qualcosa di antico e di sublime che la poesia di Luzi porta sempre con sé – alle Madonne di quel senese Simone Martini, autorizzato alter ego del poeta, in viaggio anche lui fra terra e cielo. È qui, del resto, che possiamo leggere, assieme a versi di alto impegno meditativo e filosofico, versi come quelli di Il visibile che i pittori vedono.

La voce di Luzi, i pensieri di Simone… Lasciami, non trattenermi mi si rivela così anche, nella sua potente originalità, come una sorta di libro-regesto o palinsesto aperto riassuntivo di tutto Luzi, ogni testo del quale fortemente rimanda ad altre plausibili contestualità, ad altre plausibili appartenenze. Un libro unico di Mario Luzi si afferma: un libro in cui l’Opera traluce di continuo nell’opera. È così che torna in mente, proprio partendo da questi estremi versi che il poeta ha voluto donarci, quanto ci capitò di dire nel festeggiare i suoi stupendi novant’anni, il suo ultimo compleanno. In realtà, anche allora, eravamo stati in sostanza ad ascoltare la sua voce, voce stavolta di commento, voce ai margini del testo, ma anch’essa, analogamente, voce inconfondibile, voce poetica tout court: «C’è un momento – tornava a dirci Luzi – in cui la verità, se vogliamo tenerla come ultima finalità, come teleologia della poesia, si è rivelata così, con la semplice celebrazione dell’esistente, di quello che è già, o di quello che si desidera che sia, che venga, che ci manca».

È a ben vedere una definizione quanto mai calzante di ciò che è accaduto a tutta la grande poesia di Luzi, tanto più a quella conclusiva, grandissima, che Lasciami, non trattenermi così bene ancora una volta rappresenta e suggella. E dove risiede – torniamo a chiederci – la ragione della gioia naturalmente mimetica, intrinseca, luminosa, sostanzialmente distante da complicazioni e intralci, e invece festosa, letificante, serena e contagiante, «naturale», che i versi di Luzi riescono a trasmettere anche quando si confrontano con il «dramma» e con l’«enigma» della nostra storia di uomini?

Frammenti di Novecento è il titolo che un critico volle a suo tempo adottare per uno dei bei libri-intervista luziani: un titolo quanto mai in carattere, nel suo divaricarsi fra il plurale di un «molteplice» e il singolare di un «unitario» alluso, che a quei frammenti, parte di un tutto, si riferisce. Si ritorna anche così ai titoli delle opere di Luzi, a titoli meravigliosamente giocati su questa stretta dinamica interna in cui «essere» ed «esistere» convivono: da Frasi e incisi di un canto salutare a Per il battesimo dei nostri frammenti.

Ci si ricorda anche, adesso, nel leggere Lasciami, non trattenermi, che quel trascorso ma recente ed implicante Novecento, di cui Luzi è stato testimone interessato e coinvolto tra i massimi, è stato inaugurato, per via di pronostici filosofici tragicamente inveratisi in episodi della storia, come il secolo della «morte di Dio», e che a quel secolo dalla poesia di Luzi così bene attraversato hanno fatto seguito aggravate, quotidiane e globali, evenienze da strazio, da angoscia, da smarrimento, da inimmaginabile scelus, come ancora Luzi ha detto, intitolando proprio così, latinamente e con efficacia, versi umanamente delusi, sdegnati e affranti.

Le ragioni del frammentario, del disgregato e del molteplice, e quelle, di segno opposto, dell’unitario: un confronto storicamente montante, fattosi con gli anni sempre più tragico e ineludibile, potenzialmente secondo alcuni foriero di inadeguatezze e inconcludenze, perfino di inappellabili e beffardi messaggi di scomparsa.

«La poesia – scriveva Luzi già nel 1954, ben prima di quell’inquieto, coraggioso ed improcrastinabile libro-svolta del 1963 che abbiamo ricordato, Nel magma – respira un profondo bisogno di unità laddove la vita psichica e la vita organizzata degli uomini d’oggi è estremamente frammentaria. Ma quella sintesi potrà operarsi oggi nella realtà quando manca ogni seria premessa a concepire integralmente il mondo come realtà che ha principio e termine in se stessa? Oppure la poesia dovrà adattarsi a vivere in sparsi e bruti frammenti?».

Poi la poesia di Luzi ha saputo perfettamente distinguere tra vivace, animato frammento e inerte, morto frantume, mentre il poeta a latere dei suoi versi, rasserenato, affermava: «Ciò che unicamente ci rassicura è la vita in sé, lo spandersi continuo della vita sul pianeta, nell’universo».

La poesia, l’essere, l’esistere, l’addolorante e nel contempo esaltante storia – la «storia umana» qui, in Lasciami, non trattenermi, testualmente convocata a giudizio in compagnia della «scienza» in Dove va – ciascuno con individuali ma non separate forme di attestazione, di memoria, di indirizzo, e al centro di una creazione dinamicamente ininterrotta, eccezionalmente stimolata, anzi, nella sua vocazione allargante, inclusiva e di perfezionamento, all’annessione del fenomenico a vicende dell’unitario, ad allargate promozioni partecipative e agnizioni realizzate attraverso il linguaggio: il «battesimo» del linguaggio. Fino a quella notevolissima poesia che predica il mutamento – a dispetto della massima in un verso di un’altra che recita «La vita si trasforma in sé perpetuamente» (Noetica) – in termini di «illusione», È illusione, lo so, il mutamento, che si può leggere come una inattesa, sorprendente messa in crisi di tutta una poetica, ma in realtà non lo è; fino alle contigue ed altrettanto stupefacenti poesie limitrofe che tornano a dire «io», che però è un «io» slittante, spoliato e spolpato, di continuo pronto ad assumere nella sua povera e creaturale verità che fa pensare a Betocchi deleghe e fattispecie altrui; o fino a due formidabili apparizioni-studio dell’essere gomito a gomito, gemellari e proprio così affascinanti come Scende l’essere e Cala in sé l’essere (ma si vedano anche, consecutivi e speculari, L’essere, i suoi fasti e Tutto compiutamente), per cui valgono di nuovo le considerazioni prima esemplificate attraverso i paragonabili trattamenti di un unico motivo fluviale. O ancora – tra infinito e finito, singolare e plurale che in quel singolare si realizza – fino al distico che chiude un testo già citato, l’estivo-naturalistico e insieme primordial-ontologico Tutto compiutamente: testo che dice, non si sa più se in una stagione prodiga di meridiani prodigi, all’alba del mondo o in un paradiso trasportato in terra, già iniziato: «L’essere si gloria / di sé. Brilla di finitudine. È».

Sta di fatto che all’incrocio di fascini e insieme di una implacata e ritornante «incognita dolorosa», la poesia di Luzi è stata in grado di riabilitare gli episodi sparsi, in apparenza solo dissociati, cosmicamente antagonistici e umanamente contundenti, di un unico «dramma» e di un unico «enigma». Ma proprio nel fare questo – nel dire cioè di un mistero e nel celebrarlo –, la poesia di Luzi ha raccontato la speranza, l’ha alimentata: a tal punto da poter arrivare sereno alla conclusione aperta, quasi preparata da L’ascesa non s’arresta e da altri testi, che si affida a Il termine, la vetta, l’affascinante lirica digitata al computer da Caterina Trombetti la domenica sera del 27 febbraio 2005, poche ore prima che la morte (quasi con garbo, con il rispetto a lui dovuto, da «vera morte del giusto») lo raggiungesse.

Dalla discesa nell’«io» più profondo al confine che si può scorgere solo all’orizzonte, alzando gli occhi, in alto, fra terra e cielo, fra dantismo purgatoriale e stupita visione di tipo romantico: tornando ancora una volta a vedere il mondo dalla barca, ricongiungendosi al «cominciamento», fra timore e desiderio, di un viaggio perenne, che non si arresta:

Così anche la presentazione di un libro postumo può risolversi in un’occasione gioiosa, traboccante di quel sentimento di assoluta confidenza con cui ho sempre letto e credo si debba leggere la poesia di Luzi, anche quando essa ci parla di «drammi» ed «enigmi», di umana sofferenza, di dolore del mondo: occasione confidente e gioiosa anche per un convinto tozziano come me, che al punto più alto delle sue preferenze novecentesche ha abbinato – proprio assieme, e proprio ai vertici di quella scala, in cima – uno scrittore scurissimo come Federigo Tozzi e un poeta della luce come Mario Luzi.

Testo presentato in occasione del ricordo di Mario Luzi a cinque anni dalla morte promosso dall’Accademia degli Euteleti, San Miniato, Palazzo Migliorati, 7 marzo 2010.