Le parole sono chiodi

Mario Luzi a un anno dalla morte, nel ricordo di Gianfranco Ravasi. Un’amicizia fatta di silenzi e fiorita grazie al Verbo.

Un anno fa (il 28 febbraio 2005) moriva il poeta fiorentino Mario Luzi. Autore tra i più fecondi e amati della lirica italiana contemporanea, Luzi era stato insignito solo qualche mese prima della carica di senatore a vita dal Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, per gli «altissimi meriti nel campo letterario e artistico». E proprio la motivazione di Ciampi apre un eccezionale volume di scritti scelti con versi inediti di Luzi (in questa pagina riproduciamo una poesia databile tra l’estate 2003 e l’autunno 2004) intitolato — secondo la volontà stessa del poeta — Autoritratto.

Il libro, curato da Paolo A. Mettel e Stefano Verdino, contiene contributi di Ennio Antonelli, Achille Silvestrini, Gianfranco Ravasi (che pubblichiamo in questa pagina), Anna Mitrano, Massimo Cacciari, Sebastiano Grasso, Giorgio Pinchiorri, Mario Specchio, Stefano Verdino, Vincenzo Vitiello e l’omaggio grafico alle liriche e al poeta degli artisti Mario Francesconi, Nino Lupica, Aleardo Paolucci, Ernesto Piccolo, Marco Nereo Rotelli. Il libro (formato 14×21; stampato in mille copie nelle officine Mardersteig, più 100 copie rilegate in tutta pelle e numerate ad personam; 400 pagine; con cinque tavole a colori) viene editato nella «collezione Metteliana» del bibliofilo svizzero Paolo Andrea Mettel che si è valso della collaborazione del «Centro Studi Mario Luzi La Barca» di Pienza (cui richiedere informazioni: Via San Carlo 8, 53026 Pienza, tel. 0578749796).

Insieme al libro usciranno contemporaneamente un dvd con le interviste a Luzi effettuate nel 2003 e nel 2004 a Pienza e a Firenze e un cd con alcune
interviste radiofoniche a Luzi realizzate, con l’apporto dello stesso Mettel, dalla Radio Televisione Svizzera Italiana di Lugano che in questo modo contribuisce al ricordo del grande poeta. Sono previste una serie di presentazioni del libro subito dopo Pasqua: a Lugano (Auditorium Radio), Milano (centro Svizzero), Roma (chiostro della Minerva, relatore Giulio Andreotti), Salerno, Gubbio (ultima città dove Luzi l’11 febbraio 2005 venne insignito della cittadinanza onoraria) e infine Pienza.

«Dovevamo tradurre i Salmi, ma si macerava su ogni singolo verso. Della società attuale temeva il vuoto delle coscienze e la superficialità dei pensieri. La fede era la sua stella polare. Alla festa per i suoi 85 anni partecipò, senza farsi notare, anche Enrico Cuccia, che lo ammirava»

di Gianfranco Ravasi

Passeggiavamo insieme anni fa sul Lungarno durante un crepuscolo, un’esperienza sempre emozionante in una città come Firenze. Luzi all’improvviso mi aveva fermato e mi aveva fatto notare l’illuminarsi delle finestre: in molte di esse si riusciva a intravedere il riquadro azzurrognolo del televisore acceso. Ricordo ancora le sue parole, quasi cesellate, come di solito gli accadeva: «Non sappiamo se la gente che è davanti a quello schermo sia con le mani alzate in segno di resa o di adorazione». Sì, Luzi temeva la dilapidazione delle parole, la superficialità dei pensieri, il vuoto delle coscienze.

Egli era convinto che ai nostri giorni si fosse instaurato paradossalmente «un difetto della Parola e un eccesso di parole. E quando la parola rinuncia a essere atto di ragione, di persuasione, di confronto, allora può diventare tutto: suono, urlo, invettiva». Avevo scoperto che cosa significasse questo per lui quando un editore aveva insistito perché insieme elaborassimo una traduzione poetica dei Salmi. La risposta me l’aveva data attraverso un atto simbolico nel suo studio: mi aveva mostrato una serie di pagine sulle quali aveva tentato di stendere in modo soddisfacente un solo verso, in una sorta di continua macerazione. Ed era stato felice quando gli avevo applicato una frase del Flauto di vertebre di Majakowskij: «Io sulla carta sono crocifisso coi chiodi delle parole». La parola era per lui una realtà vivente, capace di ferire e di guarire, da rispettare e amare.

La nostra amicizia, lieve, fatta di silenzi e di incontri essenziali, era fiorita proprio attorno alla Parola sacra. Una volta gli chiesi di scrivere una prefazione a una mia traduzione di Giobbe che sarebbe stata pubblicata in Svizzera. Lesse quel testo e, come confessò in un’intervista, rimase “sconvolto” proprio per la forza di quel messaggio: «Quand’anche Dio mi uccidesse, continuerò a credere in lui», esclamava infatti l’antico sofferente. La fede, che nasceva dalla Parola, è stata sempre per Mario Luzi una sorta di stella polare, ma lo è stata soprattutto nel tempo della notte, quando s’infiamma il dolore, esplode la paura, il silenzio si fa abissale.

È per questo che egli accettò con impeto l’invito di Giovanni Paolo II a stendere i testi della Via Crucis al Colosseo il Venerdì Santo del 1999, divenuto poi il libro Passione. Quel “nadir” tenebroso che Gesù sperimenta quando vede l’assenza degli amici attorno a sé, sente il cielo svuotarsi sopra di sé e l’amarezza invadergli il cuore, era per Luzi il segno supremo dell’Incarnazione e quindi dell’estrema fraternità di Dio con l’uomo, col suo limite e col suo deserto. E allora aveva messo in bocca a Cristo queste parole rivolte al Padre: «Com’è solo l’uomo, come può esserlo! Tu sei dovunque, ma dovunque non ti trova. Ci sono luoghi dove tu sembri assente e allora geme perché si sente deserto e abbandonato. Così sono io, comprendimi!».

Nel credo cristiano era stata proprio l’Incarnazione a essere il centro attorno al quale Luzi aveva annodato versi e pensieri. Era quello l’oggetto anche dei nostri rari ma intensi dialoghi, com’era accaduto una sera a Parma davanti ai dipinti di un pittore caro a entrambi, Carlo Mattioli. L’antitesi Dio-uomo in Cristo si placava e si incrociava: «Non startene nascosto nella tua onnipotenza. Mostrati! / Il roveto in fiamme lo rivela, / però è anche il suo impenetrabile nascondimento. / E poi l’incarnazione — si ripara dalla sua eternità / sotto una gronda umana, scende nel più tenero grembo, / verso l’uomo, nell’uomo… sì, / ma il figlio dell’uomo in cui deflagra / lo manifesta e lo cela».

C’era, dunque, nella dolcezza della sua persona, affidata anche al sorriso costante degli occhi chiari, una veemente temperie mistica che intrecciava lotta e abbandono fiducioso. Nel dialogo del 1997 con Stefano Verdino, raccolto nel volume La porta del cielo, Luzi dichiarava: «La preghiera è un atto d’amore, nel suo fondamento… Io penso che ci sia non solo negli uomini, ma in tutto ciò che è presente nel mondo, un respiro e un’aspirazione orante… C’è implicita una preghiera nella condizione dell’uomo e nella condizione del mondo, solo che raramente la si trova in atto… La preghiera comincia dove finisce la poesia, quando la parola non serve più e occorre un linguaggio altro».

Affidandosi a un linguaggio ora denso di simboli e di ammiccamenti teologici ora spoglio e chino sulla quotidianità, egli ha vissuto e testimoniato nella sua ricca produzione letteraria e teatrale le contrapposizioni radicali della vita e della fede.

Al centro, infatti, della sua opera si è sviluppato il contrappunto tra tempo ed eternità, tra umanità e divinità, tra individuo e cosmo, tra solitudine e presenza trascendente. Il suo è stato sempre un pellegrinaggio nel mistero di Dio, dell’uomo, dell’essere e dell’esistere, un’interrogazione senza sosta, un andare verso un Oltre e un Altro che sempre ci sfuggono e s’accendono di splendore.

Il cristianesimo ha animato e ravvivato la sua ricerca poetica che non si è mai disgiunta da quella teologica, rendendo più drammatico il credere e l’agire, più lacerante lo scandalo del male, più forte l’incidenza dell’incarnazione divina nella storia. Come egli stesso ha confessato, «essere cristiani può dare letizia, può far conoscere qualche gioia pura, ma nello stesso tempo drammatizza lo sgomento di fronte al male che possiamo toccare con mano». Eppure, attraverso la fede e la parola, la lode divina e il canto poetico Luzi ha deposto un seme di luce nel groviglio tenebroso della terra e della storia.

C’è in me un’amarezza particolare nella memoria di questo grande uomo, poeta e credente. Non è solo quella della morte e della separazione. Pochi giorni prima della sua scomparsa era sceso a Firenze per una conferenza; la solita frenesia mi aveva fatto comprimere tutto in un pomeriggio e, così, avevo messo tra parentesi il desiderio di fargli un cenno telefonico e forse una breve visita, anche solo per dirgli a voce la mia gioia per la sua cooptazione a senatore a vita. Il vero ultimo ricordo, intenso e disteso, rimane allora quello della celebrazione a Milano dei suoi 85 anni, organizzata dall’amico comune Paolo Mettel. Eravamo nella basilica mirabile di S. Simpliciano; ad ascoltare Luzi dietro una colonna, come sempre restio a ogni visibilità, c’era anche il banchiere Cuccia che amava la sua poesia. In quell’occasione avevo concluso il mio intervento leggendo un testo del poeta, trasparente e quasi immediato, diverso quindi dal suo stile spesso arduo e iridescente. Alla fine egli mi aveva detto: «Hai letto quello che potrebbe essere il mio testamento».

È per questo che pongo quelle parole quasi come un’epigrafe e un addio ma anche come un appello ultimo di Mario Luzi a tutti i suoi lettori. «Vorrei arrivare al varco con pochi, essenziali bagagli, / liberato dai molti inutili, / di cui l’epoca tragica e fatua / ci ha sovraccaricato… / E vorrei passare questa soglia / sostenuto da poche, / sostanziali acquisizioni / e da immagini irrevocabili per intensità e bellezza / che sono rimaste / come retaggio./ Occorre una specie di rogo purificatorio / del vaniloquio / cui ci siamo abbandonati / e del quale ci siamo compiaciuti. / Il bulbo della speranza, / ora occulta sotto il suolo / ingombro di macerie / non muoia, / in attesa di fiorire alla prima primavera».

I libri una vita

Mario Luzi (Sesto Fiorentino 1914-Firenze 2005) è stato tra i massimi poeti italiani del Novecento. Il suo «battesimo poetico» avviene nel 1935 con «La barca» (Guanda, Modena) che ne lascia già intravvedere le doti e le potenzialità espressive. Seguiranno molte raccolte, tra le quali la riepilogativa (fino ad allora) «Il giusto della vita» (Garzanti, 1960). La sua opera poetica, durata l’arco di un sessantennio, è quindi stata raccolta nei Meridiani Mondadori per la cura eccellente di Stefano Verdino.

Docente di Cultura francese a Firenze, poi di Letteratura ad Urbino, tradotto in tutto il mondo, frequentemente invitato all’estero, più volte candidato al Premio Nobel per la Letteratura, Luzi è eletto Accademico della Crusca nel 2003 e Senatore a vita nel 2004. I suoi funerali solenni, officiati nel Duomo di Firenze dagli arcivescovi Antonelli e Piovanelli, alla presenza di Ciampi e di migliaia di cittadini, diedero la misura dell’enorme popolarità raggiunta dal poeta. La sua biblioteca personale è custodita a Pienza presso il Centro Studi su Mario Luzi fondato nel 1999 che ne tutela e valorizza l’opera.