Il discorso mai pronunciato al Senato

Mario Luzi, Autoritratto

Metteliana, maggio 2006

Questo è il testo del discorso che Mario Luzi avrebbe dovuto pronunciare in Senato dopo la nomina a senatore a vita.

Signor presidente, onorevoli colleghi,

sento di dovere un ringraziamento dal profondo del cuore a quanti, e sono molti, si sono adoperati per questa nomina che mi onora superlativamente. Con pubbliche petizioni sottoscritte da molti cittadini famosi o oscuri, con appelli radio e giornalistici si è prodotta una mozione di simpatia più diffusa di quanto potessi aspettarmi. A tutti indistintamente un saluto riconoscente nella speranza di non deludere completamente l’aspettativa.

Con particolare affetto e devozione rivolgo il pensiero al presidente della Repubblica che mi ha ritenuto degno di sedere in questo seggio. Misuro infatti l’altezza dell’onore fattomi dalla statura culturale e civile di coloro, senatori a vita, che mi siedono accanto in questo consesso. La lista dei nomi ai quali il mio va ad aggiungersi è impressionante e mi fa dubitare di essere vittima di un abbaglio.

No, non è un abbaglio, devo convincermi, e dunque io siedo veramente dove hanno seduto Manzoni, Carducci, Montale, ma anche Garibaldi, Verdi, Verga. La storia dell’Italia è salita fin qua, e addirittura qua è stata fatta. Il che è avvenuto non infrequentemente. L’istituzione ha un grande prestigio e ha, allo stesso tempo, una parte incisiva e determinante nella vita politica nazionale. Mi permetto di insistere su questo vocabolo che voglio sia inteso nella pienezza che le aspirazioni tribolate e appassionate delle vicende risorgimentali e postrisorgimentali gli hanno dato, senza diminuzioni palesi o surrettizie.

Non sono un uomo di parte, né di partito e spero neppure di partito preso. Sono qui, suppongo, aldilà dei miei meriti, non dico a rappresentare, ma almeno a significare un lato della nostra realtà troppo spesso trascurato e maltrattato, quando dovrebbe essere privilegiato e sostenuto in tutte le sue manifestazioni di splendore e di bisogno. È il settore, ma dispiace chiamarlo così, della cultura dell’arte, della loro storia, dei loro documenti e monumenti, della loro attualità.

Non sono un uomo di parte, dicevo, sono però un uomo di pace e tutto quanto si fa per promuoverne e assecondarne il processo e la durata lo considero sacrosanto, inclusa qualche inopportunità, qualche errore controproducente perdonabile con la buona fede. Non devo dire molto di più su me stesso se non confermarmi nell’atavico sentimento comune a tutti gli uomini della mia generazione e delle antecedenti alla mia che l’Italia è un grande paese in fieri, come le sue cattedrali. Lo è secolarmente, non discende da una potestà di fatto come altre nazioni europee, viene da lontani movimenti sussultori fino alla vulcanicità dell’Otto e del Novecento. La nazione si unisce e ascende a se stessa, la sanzione di quella ascesa è lo Stato, per il quale penso si debbano avere, data la nostra storia, speciali riguardi. Revolution e amelioration possono equamente curarlo, ma tradirlo e spregiarlo non dovrebbe essere consentito a nessuno. Con questi pensieri e convincimenti mi associo a questo illustre consesso.