“L’esempio di Luzi” di Marco Marchi

Lectio Magistralis al Premio <Firenze per Mario Luzi> tenuta nella Sala dei Duecento di Palazzo Vecchio, Firenze, 28 febbario 2012. Ricordando il settimo anniversario della scomparsa del Poeta.

In allegato la pagina de <La Nazione> di Firenze con i risultati della prima edizione del Premio.

Sette anni senza Mario Luzi. Ricordano il Poeta – oltre la sua Firenze – la «femminile» Siena degli anni dell’adolescenza e l’amatissima Pienza dei suoi tardi ristori estivi, Castello – dove Luzi, il figlio del capostazione Ciro e di Margherita Papini, era nato nel 1914 – e il grossetano Semproniano (allora Samprugnano), il paese natale dei suoi genitori, il larico, magico e un po’ selvaggio paese delle origini.

È bello immaginare, uniti nel ricordo del Poeta, con Firenze in testa, tutti i luoghi e tutti i tempi della vita di Luzi: insieme, «dalle foci alle sorgenti», come fossero le acque di uno stesso fiume che continua a scorrere, permettendo ancora alla nostra «barca» di sopravvissuti, il cui nocchiero è rimasto in realtà saldamente al nostro fianco, vigile e premuroso, di «vedere il mondo», di coglierne ancora – come si dice in Alla vita, uno dei testi più noti del suo primo libro, La barca, del 1935) il «sospiro profondo». Non una memoria di morte, ma di vita: da «discorso naturale» ininterrotto, plurimo e interattivo, da poesia della trasformazione, del «dramma» e del ritrovato accordo.

Sette anni senza Mario Luzi, ma con la sua opera, con la sua eredità più preziosa e incorruttibile.  L’opera poetica di Luzi si svolge a mosaico: un intreccio complesso di motivi, unitario e cangiante, afferente all’idea di una temporalità inesorabile e ambigua legislatrice dell’«universa vita». Scrive il Poeta in una sintetica ma esauriente presentazione di sé intitolata Ricerca della propria immagine: «Il mutamento, la metamorfosi: questo è stato e resta il tema dei temi della mia poesia ed è giusto che anche il mio intimo autoritratto ne sia investito e perfino reso impossibile. Mai però ho sentito questo tema come sola commemorazione elegiaca di ciò che si perde: il sentimento della perdita non manca, è anzi drammatico; tuttavia mi pare abbia in passato prevalso su di esso il fascino di un’incognita dolorosa».

La parabola luziana è qui delineata nei termini riassuntivi di questo dinamico, non pacificato autoritratto: un superamento del sentimento della perdita e la scoperta traumatica e insieme necessitante del dramma quale unica possibilità consentita al poeta moderno di dare forma all’esistente, al mistero della creazione che nel mistero della creazione artistica si riflette.

Il trend psico-espressivo si attesta al punto di evoluzione e di complicazione delle primitive figurazioni umane e naturali. Nella Barca il noviziato poetico si caratterizza subito in Luzi ventenne come un’urgente disposizione al bilancio, alla realizzazione sentimentale di un modo di aderire alla realtà: un’ideale Vita nuova novecentesca che dalla contemplazione di creature còlte e illuminate nei gesti quotidiani dell’esistenza risale confidentemente a paradigmi generali.

C’è già nel primissimo Luzi la consapevolezza che questa vanità nasconde verità. Si direbbe anzi che la raccolta d’esordio, con i suoi risultati lirici talora in se stessi già notevoli, si delinei fin troppo generosamente come una «fisica perfetta», indulgendo da un lato al fissaggio immaginativo dei segni del dolore, e dall’altro alla dichiarazione delle sue certe ragioni di riscatto, magari sull’esempio recente di quel Carlo Betocchi, l’autore di Realtà vince il sogno, in seguito e per sempre riconosciuto dal Poeta come il suo «solo, umile maestro».

In Avvento notturno, il libro pubblicato da Vallecchi nel 1940, in piena stagione ermetica, l’abbandono dell’intrattenimento tipico dell’opera prima facilita l’insorgenza degli «emblemi sibillini della perennità» che la parola recupera dagli ipogei della memoria. La fitta trama simbolica esperita è d’altronde destinata a rapide e durature sostituzioni, calibrate tra la riattivazione della tematica memoriale-affettiva delle prove dell’immediato dopoguerra (Un brindisi, Quaderno gotico) e aperture su panorami inediti, dell’angoscia ma anche della pietà, come quelle previste dalle raccolte degli anni Cinquanta (da Primizie del deserto a Onore del vero, a Dal fondo delle campagne), dove la raggiunta maturità espressiva della poesia di Luzi si lascia cogliere in accordo con le ragioni del cuore di Pascal, da poeta del tutto consapevole che «la verità senza carità non è Dio».

Preme già, ai confini della poesia di Luzi, quella che l’autore chiamerà la «sorte comune», con le sue insufficienze da riconoscere e in cui riconoscersi e le sue esigenze bisognose di espressione, in cerca di «voce». Ed è Nel magma, ad apertura del decennio successivo, nel 1963, che si inaugura il nuovo, straordinario corso, storico e tellurico, della poesia di Luzi: una poesia dapprima estensivamente aperta al dialogo e al confronto anche polemico con il disintegrato mondo contemporaneo, poi sempre più sprofondata, con riacquisti di verticalità, nel ritmo biologico della sua vicenda tumultuaria che produce quegli eventi frammentari e quelle insorgenze cronachistiche.

È il momento, già a suo tempo annunciato dalla crisi di Un brindisi e adesso non più differibile, dell’incontro con la Storia: una Storia vista nella sua totalità come – secondo parole del Poeta stesso – «una grande metafora della condizione umana e del processo profondo della natura» (La creazione poetica?, in Vicissitudine e forma). Anche il linguaggio cambia. Alla perentoria originalità del mutamento intervenuto fa riscontro una sensibile, oraziana «conversione d’avvicinamento» della poesia «verso la prosa»: non un «depotenziamento del linguaggio poetico», tuttavia, bensì l’«assunzione d’altri linguaggi in uno stile più conversativo in poesia», la poesia stessa come «arricchimento, esplorazione d’altri linguaggi».

Affermerà ancora Luzi, alla ricerca della propria «immagine»: «Dramma e enigma: provo a isolare queste due parole, a farne un’endiadi. Non so se possono davvero riassumermi ma certo vi riconosco molto di me. Il sentimento creaturale con la sua suscettibilità di fronte alle pene e alle offese non è meno forte del giudizio e del senso storico dell’ingiustizia. Questo spiega, credo, perché il colloquio con il mondo assume accenti ora intimamente ora scopertamente drammatici. C’è poi in me il convincimento cristiano della non casualità del dolore e c’era più di quanto non ci sia oggi l’altro forte convincimento del valore di prova riposto nella sofferenza. Né l’uno né l’altro rischiarano però, anzi rendono anche più misterioso il senso della vicenda comune. Del resto con il passare degli anni si è avverato anche questo: che ho avuto meno presenti il destino e l’esperienza individuale, mi è sembrata meno importante la salvezza della mia anima e più la sorte comune, più il poco decifrabile enigma del nostro tormentato procedere nel mondo».

Dal petrarchismo al dantismo: è la «creazione incessante» a venire ormai alla ribalta, siglando quasi di necessità questo passaggio, questo modo diverso di concepire la poesia, tra nuovo realismo ed incrementi polistilistici di realizzazione. Il Poeta tra poco, condannato ogni residuo di apriorismo (e ideologicamente confortato nei suoi mutati orientamenti religiosi da un cristianesimo operativo di tipo paolino), insisterà con forza sull’assunzione dell’indiscriminato a livello poetico. Nei libri dagli anni Settanta in poi (Su fondamenti invisibili, Al fuoco della controversia, Per il battesimo dei nostri frammenti, Frasi e incisi di un canto salutare, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, fino a Dottrina dell’estremo principiante e al postumo Lasciami, non trattenermi), come nella vasta, parallela produzione per il teatro (dal Libro di Ipazia a Rosales e Hystrio, da Felicità turbate a Ceneri e ardori), gli incontri dell’autore con la realtà si intensificheranno, facendosi via via più esigenti ed inclusivi. La sua poesia attingerà d’ora in poi con fedeltà all’inespresso, promuovendo sempre nuovi battesimi di amore e di dolore, fiduciosa nella propria investitura sancita con l’acqua (l’elemento sorgivo della Barca) e con il fuoco (il fuoco della controversia, l’ardore di conoscenza e la «conoscenza per ardore»): poesia arte-fatta a immagine dell’eterno divenire, l’essenza trascendente tra visibile ed invisibile delle cose.

L’idea di degrado e distruzione implicita nel fluire inesorabile del tempo e nell’azione della Storia gradualmente si evolve in una nozione più complessa della temporalità, intesa nella sua incandescente ambivalenza di perdita e di durata. Il futuro del mondo e la credibilità stessa della poesia convergono nella prospettiva di un cristianesimo agonico che riafferma con convinzione il «giusto» valore della sofferenza come punto di incontro di umano e divino. Il poeta di Primizie del deserto che a suo tempo aveva detto «attendo, guardo / questa vicissitudine sospesa» (Notizie a Giuseppina dopo tanti anni) è lo stesso che potrà adesso chiedere alla parola il massimo di significanza, avendo superato la prova del fuoco, quella che il Poeta definisce la «pentecoste del dolore».

È dunque nella sua appartenenza ad una vita che nasce perennemente alla vita che la poesia di Luzi sempre di più viene qualificandosi: un poema creaturale che dà voce alla volontà dell’universo, in ogni suo aspetto, ad esprimersi, a vivere e rivivere. Mi piacerebbe che i ragazzi qui stamani raccolti prendessero contatto con la poesia di Luzi e cominciassero a conoscerla attraverso le sue poesie «naturali» dedicate ai monti, ai fiumi, alle rondini, ai pesci, alle api, ad un minuscolo e quasi invisibile seme destinato a produrre incredibili prodigi, a farsi pianta che verdeggia. L’ascolto si Luzi è partecipe e assorto, attento ed inglobante, pronto a registrare in tutte le sue imprevedibili manifestazioni la disponibilità dell’esistenza a riconoscersi in se stessa, nei disegni divini imperscrutabili e cogenti che l’avvolgono e che riattivano di continuo l’esempio cristologico di un Dio «nelle sue spoglie», sacrificalmente – lui fattosi materia, mondo, gravità, sofferenza – votato all’umano e al creaturale, al destino universale di «morte e ricominciamento» che è lo stesso sussunto da tutto l’esistente.

Un Luzi ai vertici; ed è un «non sapere / che tutto sa», un sapere che conosce l’angoscia, l’abbandono, il tedio, l’afflizione, ma anche l’amore, la solidarietà, la pietà, aprendo infine al miracolo, alla pienezza della vita rintracciata e allo stupore lieto e letificante della scoperta. Situazioni, queste, che comunque rispecchiano, secondo Sant’Agostino, «una certezza di entità, di esserci come ente nel mondo, che tu sei nulla e tutto nello stesso tempo», e attraverso le quali si esprime la centralità dell’essere, la sua stessa dignità, nell’instaurato rapporto con il ritmo perpetuo dell’esistere, con l’immanenza del divino e dei suoi ardui enigmi, con la necessità e la grazia che si lasciano parimenti cogliere.

Si situa su questo denso discrimine il sempre più forte e sempre più esplicito rapporto del Poeta con la Storia: una Storia attraversata tramite i suoi versi, con la sua parola di poeta tra massimi che il Novecento ha avuto, da pellegrino illustre, o semplicemente da persona partecipe della «sorte comune», come Luzi avrebbe preferito dire. «Nell’opera del mondo», citando ancora un suo titolo.  La poesia nell’opera del mondo: nella natura come nel farsi degli eventi, secondo un’unica appartenenza intima ed umanamente incaricata che dà voce al frammentario e alle sue tensioni di ricongiungimento all’unitarietà di un senso, di un progetto.

Memoria e Storia vengono così ad assumere nell’opera di Mario Luzi significati peculiari e di assoluto rilievo, mentre il tema civile del superamento dell’insensatezza di un «buio sangue» della violenza e della distruzione sfocia e si propaga – come un dinamico vessillo di nuova vita – nel più diffuso, ininterrotto afflato dell’universo. In entrambi i casi, partecipando e ricordando, la lirica di Luzi «tende a»: canta costantemente, pur nella rigorosa spietatezza degli accertamenti, su accorate tonalità di esortazione invocante, spesso di fermo ammonimento e di richiamo, ma anche su registri di nitida contemplazione, di intatta e superiore fiducia in quel «magma» contraddittorio e pulsante che sovrintende ai destini del mondo.

Una dizione appassionata, sconfinata, dantescamente aperta ed accogliente. Ed è questo l’approdo che anche stamani ci preme sottolineare, pure allorché il lettore riconoscerà in molti versi storicamente e civilmente culminanti di Luzi – da Muore ignominiosamente la repubblica a Sia detto, da Le donne di Bagdad alla poesia scritta all’indomani  dell’11 settembre – tanti tragici eventi novecenteschi e di nuovo millennio: dalla Seconda Guerra mondiale e i suoi orrori alla Guerra del Golfo poi riaccesasi, da Praga al Vietnam, dall’assassinio Moro alle stragi che hanno funestato la storia italiana, alle oltranze cruentemente fantasmagoriche e quasi inimmaginabili del terrorismo su scala mondiale.

Il farsi della storia, l’evolversi e il compiersi di un destino; immersione «nel magma» e distanza, immanenza e trascendenza. Anche l’ascolto cronistico appare in Luzi estremamente vigile e sensibile: attento, lucido ed inglobante, pronto a cogliere senza infingimenti la disponibilità della vita al cedimento, all’inerte ottusità, al limite, alla dispersione frantumante e tra sé belligerante, ma anche all’inveramento delle sue più certe ragioni. Il mondo è insanguinato, il mondo è al buio: «buio sangue». Ma «O anima del mondo / da tutto ferita, / da tutto risarcita…», dice, bilanciandosi tra sofferenza e ricompensa, dramma e speranza, un testo dell’ultimo Luzi (Durissimo silenzio, in Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini).

Il timbro di una poesia che gioiosamente testimonierà dell’eterno, insopprimibile ritorno della vita alla vita, tipico dell’ultimo Luzi, sta in effetti già svolgendosi: una testimonianza per e con il tutto, fino all’unisono corale del canto. In questa dimensione memoriale fondamentalmente antielegiaca, rivolta com’è per via di conoscenza dal futuro al passato, «dalle foci alle sorgenti», Luzi tornerà a rivedere i paesaggi della sua «indelebile infanzia» e adolescenza – la sua «terra toscana brulla e tersa», «La terra senza dolcezza d’alberi, la terra arida / che rompe sotto Siena il suo mareggiare morto» –, a rileggere, fra natura e cultura, l’icasticità sacrale della pittura del Medioevo come un unicum di realismo e sublime assolutezza.

Testimone di un attimo prodigioso di «universa compresenza», il suo «doppio» Simone Martini di ritorno alla città della Vergine, Siena, invocherà Maria, inciderà l’immagine della «totale evidenza», magnificandola al crocevia dei secoli e degli eventi: «Era paradiso, già? / Pregava lei, pregava / ed era / pregata intanto dalla sua preghiera. / Così, fiore crescente, / le si apriva in nuovi sensi, / così le straripava in incrementi / di forza la divinità – era il mondo / sia passato, sia atteso, / sia presente da sempre / a sempre nella sua natività».

Analogamente reagisce Firenze, dove la visione opererà, ancora favorita dall’irripetibilità dell’attimo e poeticamente nutrita, riconversioni in elementi fondamentali, in archetipi naturali topograficamente sussunti e recuperabili. «Ho visto Firenze come una rupe sopra la quale girano il sole e la luna», scriverà Luzi, campaniano e dantesco, in una sua prosa (Paragrafi fiorentini, in Trame). Le opere e i giorni di un’industre storia civica irradiatasi nel mondo non hanno dunque tolto alla pietra di Firenze la sua vita, all’acqua le sue prerogative originarie, alla luce la sua ambigua capacità di contrapporsi al nero d’ombra e di renderlo, valorizzandolo, un impasto luminescente, una sorta di altra luce; fino al ritrovamento in città di un inarrestabile «ricominciamento continuo della natura», fino all’incontro con gli emblemi di una creazione cui la letteratura, l’arte e la ricerca a pieno titolo partecipano: «la Commedia, la Cupola, lo Stato del Machiavelli».

Un nodo si è sciolto, il transito potrà procedere armonioso, lucente e sorridente, incurante di fretta e di approdi che non siano gli attimi già sottratti all’opacità di quel percorso verso i princìpi dell’essere. Poesia naturale, del ritrovato accordo. Sta di fatto che nella poesia dell’ultimo Luzi, nella permanenza del «dramma» e dell’«enigma» che umanamente sostanziano la domanda della poesia, la fatica delle dispute appare alla fine superata, ogni timore decaduto, ogni barriera dell’io vanificata: «Chi ordina? chi parla? / Non ha importanza chi sia / l’autore della vita, / la vita è anche il proprio autore. / La vita è», come nella splendida poesia intitolata Seme si dice.

Ed è proprio così, fiducioso nella vita e fiducioso nella poesia, che lo vogliamo ricordare, stamani, il nostro grandissimo Mario Luzi: invocando con lui «Vola alta, parola, cresci in profondità…».