La Passione di Cristo – Fiesole

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Fiesole, lunedì 14 aprile 2014 ore 17.30
Evento organizzato dalla nostra Associazione in collaborazione con Fondazione Ernesto Balducci e Archivio Venturino Venturi, nell’ambito del Centenario dedicato a Mario Luzi.

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Dal fondo del tempo. Il Cristo di Mario Luzi

di Marco Marchi

Cristo, il figlio di Dio che si è fatto uomo, che tra gli uomini è venuto ad abitare; Cristo, il figlio di Dio chiamatosi, proprio tra quegli uomini e proprio per loro, il figlio dell’uomo. Anche il suo è un “viaggio terrestre e celeste”, un viaggio paragonabile a quello che Mario Luzi ha fatto compiere al suo alter ego Simone Martini, un artista medievale immaginato in cammino, di ritorno da Avignone alla sua città d’origine, Siena. Ma è quello di Cristo il viaggio terrestre e celeste per antonomasia, il viaggio in cui la terra e il cielo tornano a riconciliarsi, il viaggio in cui il tempo, che è l’ingrediente dinamico e tragicamente sconvolgente della storia del mondo, pare dover incidere perfino sul prima e sul dopo della stessa sigla definitoria dell’evento, e in realtà li annulla, li sbaraglia, mostrandoli altra cosa.

«A stento – dice il Libro della Sapienza nella Bibbia – ci raffiguriamo le cose terrestri, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi può rintracciare le cose del cielo?» (9,16). Il percorso compiuto da Mario Luzi in compagnia del suo reinventato doppio artistico si è configurato – proprio nel nome dell’arte – come «erranza fra materia e luce, fra ricordo e luce»: un dinamismo inquadrabile nei suoi significati profondi, nelle sue tensioni, nei suoi conati e nei suoi conseguimenti che un’arte al quadrato registra, come «tempo del miraggio» e insieme «tempo della necessità» (Antonio Prete).

Del resto, dopo uno splendido, rigoroso libro-spartiacque come Nel magma, nei libri venuti dopo, gli incontri di Mario Luzi con la realtà si sono fatti via via più esigenti ed inclusivi. È in questi rinnovati territori dell’espressione che la grande poesia di Luzi ha attinto all’inespresso, ha promosso nuovi battesimi di amore e di dolore, fiduciosa nella propria investitura sancita con l’acqua (l’elemento della Barca, l’acqua come cifra esponenziale della humilitas luziana, fra Dante e Betocchi) e con il fuoco (il «fuoco della controversia», l’ardore di conoscenza e la «conoscenza per ardore»): poesia arte-fatta a immagine e somiglianza di un movimento onnicomprensivo che è quello dell’eterno divenire, l’essenza trascendente delle cose, ma dentro il «crogiuolo» di quel farsi, di quel rinnovamento perenne della vita alla vita che passa attraverso il dolore e la morte.

Il Cristo della Passione si dibatte nel suo tragitto di tribolazione – parole di Luzi – “tra il divino e l’umano, la sua afflizione e la sua soprannaturale certezza”, configurando nel corso del suo monologo come “una progressione dolorosa al ricongiungimento con il Padre e un cammino mortale verso la Resurrezione”.

L’idea di distruzione implicita nel fluire del tempo e nell’azione della Storia si è d’altronde gradualmente evoluta nell’opera di Luzi in una più complessa nozione di temporalità, intesa nella sua ambivalenza di perdita e di durata, inclusiva – nel presente – di passato e di futuro. Il futuro del mondo e la credibilità stessa della poesia hanno finito con il convergere nella prospettiva di un cristianesimo agonico e penitenziale che riafferma con forza – nel nome del Christus patiens distesamente evocato nelle stazioni-meditazioni della Via Crucis – il «giusto» valore della sofferenza come punto di incontro di umano e divino, creaturale e soprannaturale. E il poeta di Primizie del deserto che trepidamente ma fermamente diceva in Notizie a Giuseppina dopo tanti anni «attendo, guardo / questa vicissitudine sospesa» è lo stesso che avrebbe poi chiesto alla parola un massimo di significanza quale l’identità di creatura e creatore all’interno di un misterioso ed esaltante disegno, rendendo improrogabile l’incontro estensivo e diretto con la figura di Gesù.

Un Cristo sofferente avviato al compimento del suo crudele e solo dopo glorioso destino di uomo-Dio crocifisso: un Dio interamente «nelle sue spoglie», sacrificalmente – lui fattosi materia, mondo, gravità, sofferenza – votato all’umano e al creaturale, a un esemplare, irrecusabile destino di «morte e ricominciamento».

Il Cristo di Luzi sente, pensa e parla «dal fondo del tempo»: da uomo al cento per cento come al cento per cento è Dio. Le sue parole al Padre si innalzano da lì, da dove anche le preghiere, da dove anche le poesie degli altri uomini si innalzano. E parla, il Cristo di Luzi, a un Dio che sta alto, sopra di lui, talvolta distantissimo e impenetrabile, in sospetto di abbandono, ermetico nelle sue disposizioni cui si deve solo obbedienza, e tuttavia desideroso quanto lui di un intimo ricongiungimento, di un nuovo abbraccio d’amore che suggelli una riconciliazione oltre qualsiasi episodio doloroso intercorso.

Più dell’incarnazione, come San Paolo con sicurezza nelle sue Lettere indica, vale nell’avventura umana di Cristo la resurrezione. «Il nucleo della forza [del discorso paolino] – precisa Luzi in un suo scritto – sta nell’assunzione totale ed esclusiva del Cristo Gesù come termine di ogni verità e di ogni giudizio. Si tratta anzi di una vera immedesimazione con la sua persona e di una piena integrazione nel suo corpo avvenute mediante il battesimo nella morte di Gesù. In quel momento Gesù è divenuto tutti gli uomini: e tutti i credenti evangelizzati vivono in lui e secondo lui in unità mistica. Paolo fa vibrare al massimo diapason questa certezza ponendola, potremmo dire, come basamento della fede».

«Non è tanto la nascita e l’incarnazione – scrive ancora Luzi – quanto la morte e dalla morte la resurrezione che decide insieme la grandezza del dono fatto all’umanità e il processo della salute. Senza la morte la parola del Cristo non avrebbe avuto valore, e se non ci fosse la resurrezione saremmo stati giocati. […] La resurrezione dunque sfolgora come il punto centrale della visione salvifica e del pensiero cristico dell’apostolo Paolo».

Così, quando nei versi della Passione di Luzi Cristo muore «la vita si ritrae». Ma è ancora la poesia a constatare e poter vittoriosamente affermare che «Dal sepolcro la vita è deflagrata. / La morte ha perduto il duro agone». Dopo un uomo originariamente creato a immagine e somiglianza di Dio, un Dio fattosi uomo: svuotatosi di sé, per dirla ancora con San Paolo, fattosi «servo», servo che muore. Il ricongiungimento di Cristo a Dio e quello dell’uomo a Dio ora si identificano, si saldano ormai in un tutt’uno all’insegna dell’amore: quell’amore il cui temuto venir meno da parte degli uomini avrebbe rappresentato per Cristo stesso la più penosa sconfitta; quell’amore che adesso anche gli uomini grazie al suo sacrificio sono costretti a riconoscere, riannodando i legami fondanti di una somiglianza andata perduta, recuperando nella sua pienezza un sentimento: «Infinitamente più grande è stato il tuo amore. / Noi con amore ti chiediamo amore».

Da questo avvincente «legame d’amore» di cui il Christus patiens è modello deriva anche, io credo, il nobile ritratto di un poeta cristologicamente calato con la parola nelle drammatiche contraddizioni della Storia, affezionata e responsabile testimonianza dell’esistere «dal fondo del tempo» e certezza in ciò che quella realtà trascende.

Un Luzi, in altri termini, confidente in un «non sapere / che tutto sa» in cui tutti i contrasti si dileguano, tutte le crudezze della «controversia» si decantano. Un Luzi che con il Dionigi Areopagita citato ad epigrafe di Frasi e incisi di un canto salutare può riconoscere ed umilmente rivendicare, anche alla sua arte tra saluto e salute, tra conoscenza e carità: «Poiché da un solo amore ne abbiamo dedotti molti».