Dante e il ‘vasel’ (nel 693° anniversario della morte)

dante_23-300x230Marco Marchi – Firenze, 14 settembre 2014 – Ricordando che il 14 settembre 1321 moriva a Ravenna Dante Alighieri (quotidiano.net)

«Tutto Dante – ha affermato con icastica efficacia Mario Luzi – è un dramma che cerca di ricomporsi in una suprema catarsi e in una raggiunta armonia». In questa prodigiosa, irresistibile attrazione, in questa coltivata e partecipata tensione è dato intravedere al lettore di Luzi che sia a conoscenza dell’intera sua opera poetica quella luce ritrovata, quel sorriso colto con Dante come un inprinting dell’esistente: un inprinting rintracciato e celebrato, grazie alla poesia, oltre l’oscuro affliggente, da selva dello smarrimento che nel Novecento e nell’incipiente Duemila si è fatto e si fa sgomento, da selva della «mortalità» e della Storia: oltre l’inferno stesso, e oltre le brucianti incarnazioni visibili dell’assurdo dei lager e delle residue speranze di umana sopravvivenza lì coltivabili, espresse proprio attraverso il ricordo a Dante in Se questo è un uomo di Primo Levi.

A Luzi il problema di un rapporto non solo suo, ma della poesia d’oggi con la poesia di Dante si è posto presto, chiarissimo, e non certo foriero di sole estraneità e distanze, di intangibilità: «Forse oggi – si legge in Dante, da mito a presenza – nessun poeta può nutrire l’illusione di risalire come Dante alla sintesi e tanto meno all’armonia delle sfere che tutto presagisce e tutto contiene. Nessuna guida che abbia già chiaro per sempre il rapporto tra il particolare e il disegno di insieme gli è mandata incontro. Più facilmente un testimone di iniquità o un maestro di dubbio. Così com’è, la nostra cultura non consente di più: essa apre molte ipotesi ma non chiude nessun cerchio né indica alcuna strada come sicura. E tuttavia – continua Luzi – la necessità di una poesia che ritenti la vita nella sua legittimità primaria all’interno del mondo e della sua lacerazione, non avendolo rimosso in una condanna o nella sua indifferenza e parli con voce di chi è dentro la prova e non l’ha né rifiutata né misconosciuta, è abbastanza per giustificare ancora il poeta e ancora iscrivere il destino della poesia nel destino del mondo».

«Dentro la prova», o come altrove Luzi dirà «da dentro il patema», facendo della poesia sublime di Dante come della propria, al di là delle distanze e delle differenze, un unico «tentativo di rimettere l’uomo di fronte a se stesso in questo perverso processo di disumanizzazione che è in corso». In un diverso ma condiviso percorso in crescita, ad indirizzo ascensionale, letificante, «salutare» e rassicurante, che è venuto spostando con naturale forza inverante l’opera di Luzi oltre l’insensatezza del «dramma» e dell’«enigma» di una propria dichiarata immagine di uomo ed artista alla ricerca, già è dato ravvisare preliminarmente il graduale concrescere mitografico-immaginativo della Commedia.

Un modello, quello della Commedia, impossibile da riattivare tout court nelle sue architetture e nei suoi ordini supremi, come pure nei suoi dominati livelli di lettura (dal letterale all’allegorico, dall’analogico al morale), per via di quei compatti riconoscimenti di quella «provedenza che governa il mondo» di cui parlava Dante a Cangrande. Ma un Dante moderno pure nel dominio dell’antipoematico, dell’instabile e dell’insicuro, «del frammentario e del discorde» come Luzi dice, perseguibile anche così come esempio sommo, indirizzo, conato e aspirazione: a tal punto una protratta e sensibile inchiesta del reale come quella che anche Luzi ha affidato agli strumenti della poesia porta a Dante, a una lezione di Dante ineludibile, profondamente attiva ed implicata negli esiti raggiunti, in essi decisiva e ravvisabile.

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio;

sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.

E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.

Dante Alighieri

(da Rime)